Mi sono sempre chiesta perché la scuola abbia talvolta il sinistro potere di trasformare passione e creatività in pratiche routinarie di cui a stento è difficile individuare il senso originario. Nessuno riesce ad esserne immune del tutto: non solo gli studenti ma anche gli insegnanti stessi, magari a fasi periodiche, alternano momenti di illuminata motivazione ad altri, più lunghi e scuri, di ripetitività neghittosa quanto inconsapevole.
Certamente concorrono dati oggettivi: la parcellizzazione delle materie, ad esempio. La cattedra di Lettere, per riferirmi ad un caso che conosco, sebbene corrisponda a un unico docente, è divisa alle medie inferiori e superiori in tanti rivoli, necessari e separati tra loro da invisibili paratie: grammatica, epica, antologia, etc. Questo significa che l’insegnamento dell’italiano passerà per comodità e chiarezza attraverso questi canali, dovendo per forza dare forma e contesto ad un sapere così ricco; purtroppo il più delle volte succede che per facilitare si faccia in realtà più confusione, cosicché lo studente di terza media non si spiega come il Manzoni letto ieri sul libro di Letteratura (quando non lo definisce ancora di Epica) possa ritornare domani, sebbene sotto altre forme, sul testo di Antologia. Non esiste, per dire, una cattedra di Letteratura. Perché la letteratura è considerata un sapere specialistico, e chiamata con il suo nome solo nel contesto universitario.
Poi c’è il problema dei luoghi. Un’aula a volte inospitale, malgrado i murales e i graffiti dei ragazzi che l’hanno scartavetrata e ridipinta, con finestre che danno su strade trafficate e rumorose, e su quel tappeto di rumore metropolitano tu ti ostini a declamare Alla sera, pensando che la prima ora di lezione, dalle otto alle nove, sia quella giusta. E invece loro, i tuoi studenti, sono ancora mezzi addormentati e ci mettono un bel po’ di tempo per capire come mai Foscolo, che tutto sommato sembrava un tipo in grado di godersi la vita (almeno rispetto a quello del “Sabato del villaggio”), tutt’a un tratto si metta ad aspirare alla morte, e che in quella “fatal quiete” si senta anche piuttosto bene, facendo tutt’uno con quel “reo tempo” di cui peraltro si lamenta tanto. Anche perché, per loro, Neoclassicismo e Preromanticismo sono categorie opache come una coltre di fumo e quando tu provi a parlare degli scavi di Pompei è già scattata la seconda ora, e dal corridoio avanzano le classi dei fortunati che hanno l’ora di ginnastica, ostentando il privilegio di potersi muovere per la scuola, rispetto alle “mummie” rimaste in classe, con urla da posseduti.
E mentre stai già decidendo dentro di te, con la morte nel cuore, che quest’anno non leggerai A Zacinto, perché ti rendi conto di come Foscolo rispetto ai loro Ipod pieni di Justin Bieber e Lady Gaga appaia senza appello antiquato e obsoleto, bruci le ultime remore accennando di sfuggita, per non appesantire troppo la lezione, alla trama delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ma è una tua impressione o i loro occhi si stanno aprendo del tutto, e stanno addirittura focalizzando la loro prospettiva su di te? Racconti la trama e, dato che sul loro libro c’è ben poco, citi a memoria i passi che ami di più, quelli che nella tua memoria di adolescente ti avevano colpito nelle sere di giugno a preparare l’esame di maturità, ma non ci fai molto affidamento, perché sai di appartenere a un’altra generazione.
Ma qui il vecchio Foscolo ti fa il solito scherzo, perché quando prendi dal tuo libro il passo in cui Jacopo bacia Teresa (e tu non hai ancora svelato che “Teresa” era in realtà la moglie dell’amico Vincenzo Monti), “dopo quel bacio io son fatto divino”, ti rendi conto che quell’episodio, accidenti, buca la pagina. E in quel momento capisci di nuovo, come tante altre volte ti è già successo, lo struggimento e la rabbia per quell’amore corrisposto ma impossibile, affascinante e unico perché già perduto. Capisci la pericolosa fascinazione che può avere qualcosa di incompiuto e lasciato a metà, perché rimane idealmente e per sempre perfetto. E come te, lo capiscono anche loro, che stanno attaccati ai loro sogni e se li portano anche a scuola per difendersi da una routine noiosa e incolore. Con i loro diari zeppi, traboccanti di dediche e foto, gonfi di scritte glitterate che scandiscono le emozioni di ogni giorno. “Capite qual è la delusione di Jacopo? Perché se il suo amore non fosse stato corrisposto, amen, se ne sarebbe fatto una ragione. Ma con quel bacio lui capisce invece che anche Teresa è innamorata di lui, e tuttavia deve rinunciare a lei, perché già promessa ad un altro.”
Quello che poteva essere. I tuoi studenti sono giovanissimi, ma hanno già i loro sogni che potevano essere e non sono. Hanno storie d’amore acerbe come mele verdi eppure sanno già cosa significa la parola “delusione”. E allora di Jacopo vogliono sapere tutto, e di Ugo anche, perché hanno capito quanto possa essere utile in questi casi un alter ego; è come avere un avatar che incarna una parte di te, in cui esorcizzare e risolvere quello che ti fa più male. Perché si può soffrire terribilmente e decidere di andare avanti, come Foscolo, che dopo la delusione d’amore e quella politica (il tanto ammirato Napoleone che cede impunemente Venezia all’Austria), troppe per un uomo solo, andrà avanti e si innamorerà ancora, vivrà nuove gioie e saprà inventarsi giorni sereni anche dalle ceneri delle delusioni passate.
Ma intanto si susseguono le giornate dell’anno scolastico e le mattine si fanno più fredde. L’umidità autunnale preannuncia già il lungo inverno, con le sue mattinate interminabili, le aule claustrofobiche, le ricreazioni chiassose. Tu hai la fissazione per un racconto di Dino Buzzati, dal titolo La giacca stregata. Ti piace e ti inquieta anche, ogni anno lo rileggi con i tuoi studenti, e senti cosa ne pensano loro. Per giovedì hai le ultime ore con la terza e dici di portare il libro di letteratura. Così leggeranno il racconto, e, senza appesantirsi in odiosi riassunti che uccidono qualunque testo, faranno laboratorio di scrittura, faticoso ma estremamente produttivo.
Ma quando arriva il giovedì, ore dodici, “Prof, qui il racconto non c’è!”
Ti sei sbagliata. La giacca stregata sta sul libro di antologia, come hai fatto a non pensarci? Cerchi tuttavia un’alternativa, un testo da leggere insieme. Ma il panorama che ti si para davanti è sconsolante, quegli autori non ti piacciono, “quel” Novecento italiano non ti piace, non ti è mai piaciuto.
“Vabbè, ragazzi, vi leggo qualcosa io…” “Ma prof, ci sono I promessi Sposi! Leggiamo un altro brano?”
Che cosa? Solo martedì avevo letto in classe una parte del primo capitolo, saltando irrispettosamente il famigerato incipit, pensando di liquidare l’amato romanzo nella lettura dei soli tre brani antologizzati.
E allora leggiamo. Leggiamo il “santino” Manzoni, criticato e odiato, imposto nelle scuole superiori come lettura obbligatoria. Leggiamo senza note esplicative, analizzando i personaggi, e gli studenti si dividono il testo in parti da drammatizzare, chi fa Don Abbondio, chi Perpetua, c’è da ridere, da riflettere, da paragonare quella situazione storica al nostro confusionario presente. Gli studenti sono curiosi, decidono di comprarsi l’opera intera. Chi l’avrebbe detto? Misteri della letteratura. Misteri di un potere che attraversa il tempo e la mente, unisce le generazioni. A dispetto della routine e di un mestiere insidioso. E allora capisci che è stata la letteratura a salvarti.
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