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La libertà di chi scrive

Da Marcofre

la libertà di chi scrive

È davvero l’autore a guidare tutto? Esiste il libero arbitrio quando racconti una storia? Oppure, quello della narrazione è un territorio dove certe regole sono sospese?
Quante domande. E intanto ribadisco un concetto semplice semplice: non sono queste, le domande che ti poni quando cominci a scrivere. In quel periodo ti chiedi: “Quali sono gli editori interessati? Piacerà? Devo contrattare?”.
Poi arrivano i primi, lunghi ed eterni silenzi e a quel punto hai un sacco di tempo a disposizione perché ti rendi conto che delle tue storie non importa un fico secco a nessuno. Che nessun editore investirà su di te il suo denaro (non il tuo), finché non avrai una piattaforma di estimatori. E allora, mentre la costruisci, o ci provi, ti fai delle domande nuove!

Se lo conosci, lo eviti

Per quel che riguarda la mia esperienza: è più complesso di quanto si creda. Una storia di cui io conosca già il finale (una storia che scrivo io), a me non piacerebbe. Deve avere un finale che mi sorprende. Magari ho in testa qualcosa, ma lo uso solo per alzare la posta in gioco.

Potrebbe finire così. Diciamo che potrebbe finire così. Ma non può finire così perché è ridicolo, banale, ovvio”.

Questo è all’incirca il mio modo di pensare se ho in testa un finale. E non chiudo mai una storia in quella maniera. Che si tratti di una lunga o breve storia (un romanzo oppure un racconto), il finale deve sempre essere solo una pausa. Questo sconcerta certi lettori. Vogliono un finale, e spesso certi autori glielo danno, e questo li soddisfa parecchio. In realtà si tratta solo di una pausa. Tolstoj o Dickens davvero chiudevano le loro storie? No, infatti continuavano a scrivere. Una storia la devi consegnare all’editore, quindi la chiudi. Metti la parola “Fine”; però ricomincia con la storia seguente.
Col racconto la faccenda è più evidente. Alcuni lettori criticano Raymond Carver, dicono:

Pure io sarei capace di scrivere così. Quando non ne ho più voglia, oppure non so come chiudere, sospendo tutto. E che ci vuole?

Non tutti i suoi racconti sono riusciti. Tuttavia Victor Sawdon Pritchett (citato proprio da Carver) affermava:

Qualcosa di intravisto con la coda dell’occhio, di sfuggita.

C’è finale e finale

Ecco la sua definizione di racconto. Quindi il finale non è proprio un finale. Quello che si intravede con la coda dell’occhio, per forza di cose manca di qualcosa, e manca proprio della sua conclusione; ma è davvero importante? Questa idea che deve esserci a tutti i costi una parola finale, risolutiva, perché nell’ultima riga tutto si deve sciogliere, si chiarisce e si mostra in tutta la sua vastità e interezza: siamo certi che sia davvero utile?
Parliamoci chiaro: quante volte ci capitano delle cose tutt’altro che conclusive, che però ci prendono alla sprovvista, ci lasciano interdetti? Eppure in questa sospensione c’è un significato. E ci fermiamo a riflettere, incapaci di dare una definizione, di dire una sola parola.
Forse perché prima, da qualche parte, c’è il significato; e la conclusione serve solo a indurre il lettore a riflettere su quello che ha letto.
In “Spalle larghe” (si trova dentro “Non hai mai capito niente”), il racconto si chiude in questa maniera:

Rachele deglutì:

– Stai cercando di aiutarmi, vero?

Romina ci pensò su per qualche secondo:

– Credo di sì.

A prima vista il lettore è spiazzato (Bene!), e potrebbe pensare che non sapevo come chiudere, e ho chiuso in quella maniera. In realtà se riflette un po’, trova la storia di una ragazzina che si rende ben conto di quanto sia brutto essere ragazzine in un mondo che predilige i maschi (in particolare suo padre predilige il fratello). Chiarito il punto (quello cioè che volevo dire), si chiude. In realtà la riga precedente svela qualcosa di… Boh! Decidi tu che cosa sia.


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