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Con The King of Limbs, con un album così sottotono e lontano, i Radiohead hanno dimostrato ancora una volta la loro assoluta indipendenza creativa, la loro capacità di vivere tranquilli della musica che scrivono, senza curarsi dell'aspettativa del pubblico di massa che li adora o li detesta (che se ci badate è la sola ragione per cui la gente ascolta e giudica la musica: per assecondare, cioè, il desiderio di ascoltare ogni volta lo stesso album che ha in testa).
Il fatto che l'album sia uscito in sordina, che sia stato annunciato solo all'ultimo, che sia breve, minimale, leggero, lo contestualizza già da sé, senza bisogno di troppi commenti o riflessioni su quale strada i Radiohead abbiano deciso di prendere (e se anche fosse, di certo non è la strada dell'appiattimento). Come il romanzo breve di un grande scrittore, è la prova di una pratica artistica così libera da non costringersi ad alcuna esigenza di mercato, così consolidata da muoversi lenta e precisa per non creare, immagino, stress in chi la compone ed esegue.
E' chiaro che noi fanatici preferiremmo ancora il dolore e l'alienazione, la voglia rabbiosa di sfogarsi e disperarsi, ma se dopo In Rainbows, se dopo quel download up to you così (inutilmente) rivoluzionario avevamo tutti sperato in una nuova era dell'industria discografica, quasi tre anni dopo questi sono i frutti: la libertà di un gruppo di musicisti di comportarsi da adulti consapevoli e divertiti dal loro talento. Punto.
Nelle recensioni che ho letto la domanda ricorrente era questa: "mi chiedo cosa direi di un album del genere se fosse il lavoro di una band all'esordio". Troppo facile dire così. Tropo facile giudicare le cose come se piombassero dal nulla, come se invece che nel 2011 fossimo a inizio anni '60. The King of Limbs non è il lavoro di una band all'esordio, non è un lavoro piombato dal nulla: è il lavoro di una band che fa musica nell'era del download un tanto al chilo, che ha venduto milioni di dischi, segnato un'epoca, voltato le spalle all'industria, imparato a muoversi con le proprie gambe, sperimentato e indovinato le svolte musicali, e oggi, al febbraio 2011, con una voce che già solo per il fatto di esistere esprime un milione di impressioni, memorie, sensazioni, ha questo da dire, questo tono sommesso e metallico, questa dolcezza ancora disperata e non compromesso con ciò che si reputa superfluo.
The King of Limbs è un album depurato del superfluo, il segno puro di una libertà che non ha altro tempo che il presente, che chiede senza presunzione di essere consumato alla stessa velocità con cui, in ogni caso, si ascolterebbe un Cd con il doppio delle tracce e magari di ispirazione. La dannazione dell'artista è quella di creare di continuo. Quella dell'ascoltatore di amare o disprezzare: ma mentre il secondo è inevitabilmente ancorato al ricordo del passato, il primo, se ha avuto la bravura o la fortuna di uscire dalla gabbia del lavoro per il lavoro, ha il vantaggio di aprire bocca quando gli pare e l'opportunità di non fare troppo rumore.
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