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La Libia fra diplomazia e interessi locali

Creato il 19 novembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Lorenzo Marinone

Nonostante gli sforzi diplomatici profusi dalle Nazioni Unite nel corso degli ultimi mesi, la Libia continua a versare in uno stato caotico. Non accenna a diminuire la contrapposizione tra il Congresso Generale Nazionale di Tripoli (CGN) e la Camera dei Rappresentanti di Tobruk (CR), la cui azione politica appare sempre più succube delle diverse milizie armate che compongono gli schieramenti. Il lavoro di mediazione dell’inviato speciale dell’ONU Bernardino León ha raggiunto un primo, parziale successo l’11 luglio scorso con la firma a Skhirat, in Marocco, di una bozza di accordo tra le parti. Tuttavia, le negoziazioni riguardo la costituzione di un Governo di Unità Nazionale (GUN) e la ristrutturazione delle principali istituzioni libiche sembrano ora giunte a un punto di stallo. Infatti, la versione definitiva dell’accordo non solo non è stata finalizzata entro le scadenze concordate, ma ha ulteriormente esasperato le contraddizioni interne ad entrambi gli schieramenti in lotta.

Uno dei nodi più controversi dell’accordo riguarda il bilanciamento dei poteri fra i tre costituendi organi politici, la Camera dei Rappresentanti, il Consiglio di Stato e il Consiglio di Presidenza [1]. I rappresentanti del CGN hanno più volte lamentato una sproporzione fra il suo ruolo e quello del Parlamento rivale, motivato dalla vaga definizione delle prerogative del Consiglio di Stato. Parallelamente, l’incertezza riguardo le modalità di controllo dell’Esercito ha attirato le critiche di quella parte dei politici di Tobruk vicina all’influente generale Khalifa Haftar. Tali problematiche, note da tempo e alla base dell’inconcludenza dei precedenti round negoziali, permangono ancora nell’ultima bozza di accordo.

La fragilità dell’intesa di Skhirat si è palesata il 9 ottobre, quando León ha reso pubblici i nominativi dei membri del Consiglio di Presidenza, che sarebbero dovuti passare al vaglio dei due Parlamenti entro il 20 ottobre. A sorpresa il diplomatico spagnolo ha nominato tre vice Premier in pectore anziché due, portando dunque a sei i membri del Consiglio di Presidenza [2]. La mossa sembra rispondere ad una logica di mero bilanciamento quantitativo dei rappresentanti sulla base della fazione di provenienza, le cui conseguenze sull’efficacia dell’istituzione sono però sostanzialmente negative, dal momento che un numero pari di membri lascia aperta la possibilità di uno perenne stallo nelle votazioni. Inoltre, la tempistica dell’annuncio, giunto prima che le parti si esprimessero sull’accordo quadro, è stata giudicata prematura da molti esponenti di entrambi gli schieramenti.

Di conseguenza la ratifica dell’accordo e dei nomi proposti è stata immediatamente osteggiata sia da parte del GNC che da elementi della CR. La motivazione principale va individuata nell’influenza che le diverse milizie attive in Libia conservano su ampi settori della classe politica. A tali fazioni, che restano le reali detentrici della forza armata e le uniche realtà ad esercitare un effettivo controllo sul territorio, corrispondono infatti correnti e nuclei di potere in entrambi gli schieramenti. L’unica leva negoziale messa in campo dall’ONU per spingere le ali massimaliste – tanto sul piano politico quanto su quello militare – ad accettare l’accordo consiste nella minaccia di sanzioni contro singoli esponenti, strumenti che si sono rivelati finora troppo deboli per permettere alle correnti più moderate di isolare e mettere fuori gioco le voci contrarie.

Per quanto riguarda Tripoli, al netto rifiuto dell’accordo da parte di Swehli ha fatto eco la richiesta di modifiche al testo avanzata da Nuri Abusahmain, Presidente del GNC e fondatore della Sala Operativa dei Rivoluzionari Libici, milizia che controlla parte della capitale e alcuni villaggi circostanti. Un ruolo ambiguo è quello giocato da Abdelhakim Belhaj, Presidente del partito islamista al-Watan ed ex membro di spicco del Gruppo Islamico Combattente Libico, organizzazione jihadista con legami con al-Qaeda. Belhaj ha tentato con insistenza di presentarsi come un esponente politico affidabile, e riesce a mantenere una posizione di forza in termini di controllo del territorio (in particolare i due aeroporti di Tripoli) grazie all’appoggio di parte del clero locale e del supporto del Qatar, di cui è considerato il principale referente in Libia. L’effetto divisivo della mediazione di León è ancora più evidente se si considera la realtà di Misurata. Mentre il Consiglio municipale locale ha accolto positivamente l’accordo, la sezione centrale della Forza Scudo, la principale milizia misuratina, ha respinto l’accordo. Inoltre il Fronte Sumud, milizia guidata da Salah Badi e separatasi di recente da Fajr Libia (Alba Libica), la coalizione-ombrello che raccoglie i gruppi armati vicini al Parlamento di Tripoli, ha manifestato nelle vie della capitale in segno di protesta. Lo stato di fibrillazione delle milizie tripoline desta preoccupazione in quanto l’attuale e precario equilibrio dipende da una serie di fragili tregue locali nate principalmente per esigenze militari contingenti, non da una reale volontà di pacificazione.

Pertanto, sussiste il rischio crescente che il tentativo diplomatico di ingabbiare e raggruppare gli interessi locali e personalistici all’interno di una struttura istituzionale bilanciata, in favore di una semplificazione dello scenario politico libico, sortisca invece un effetto diametralmente opposto. Si assiste infatti ad uno sfarinamento e un indebolimento delle istituzioni attualmente in vigore, nonché ad un’ulteriore frammentazione delle fazioni armate che, di fronte alla minaccia di perdere quella rilevanza conquistata negli ultimi anni, decidono di perseguire un’agenda ancora più localistica e legata all’autorità di singole figure [3].

Meno frammentaria ma nondimeno instabile è la situazione di Tobruk, dove il nodo principale resta il ruolo di Haftar e la sua ambizione a giocare un ruolo di primo piano nel futuro assetto del Paese. L’ex ufficiale di Gheddafi e attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa è impegnato da tempo in un estenuante braccio di ferro con il Premier di Tobruk al-Thani. Haftar è riuscito nel corso del 2015 a guadagnare sempre più influenza sulla CR e non ha esitato a sfruttare il suo controllo sull’Esercito Nazionale Libico, la principale forza armata a disposizione di Tobruk, per sabotare i negoziati lanciando campagne militari contro Tripoli (a marzo) e Bengasi (settembre) e per minacciare le correnti politiche più inclini ad un accordo. Nonostante gli attriti verificatisi con alcuni ufficiali negli scorsi mesi, con fratture che in prospettiva potrebbero spingere alcune brigate a rendersi di fatto autonome, sembra che Haftar sia riuscito per il momento a mantenere intatta la sua autorità. Un’autorità che sarebbe fortemente minacciata dalla ratifica dell’accordo dell’ONU, poiché il testo non include alcuna garanzia esplicita riguardo la possibilità che il Generale mantenga il comando dell’Esercito e, anzi, subordina il suo ruolo alle decisioni del Consiglio di Presidenza.

Un ulteriore fattore di debolezza della CR deriva dalla sua fragile base di legittimità. Infatti, il 20 ottobre è scaduto il mandato ufficiale del Parlamento di Tobruk, che una votazione dalla dubbia validità (era presente soltanto un terzo dei deputati) ha prolungato artificialmente in attesa che si palesino le condizioni minime per tenere nuove elezioni. Se, da un lato, tale decisione potrebbe diventare motivo di ulteriore divisione fra i rappresentanti politici di Tobruk, dall’altro ne indebolisce la posizione al tavolo negoziale. Inoltre, al rifiuto dell’accordo dell’ONU hanno fatto seguito prese di posizione inconciliabili con un processo di riavvicinamento con Tripoli. In particolare, desta preoccupazione la decisione di vendere in autonomia il petrolio attraverso l’uso dei terminal situati nell’est del Paese, i cui proventi sarebbero incamerati dalla Compagnia Nazionale del Petrolio con sede a Tobruk, nell’evidente tentativo di estromettere Tripoli dal controllo della principale risorsa economica della Libia, nonché di assicurarsi il ruolo di unico interlocutore e quindi un rinnovato e più saldo riconoscimento internazionale.

Infine, non va dimenticato che mentre si allontana la prospettiva di raggiungere in tempi brevi un’intesa fra i due principali blocchi contrapposti, cresce il pericolo che i gruppi jihadisti presenti nelle zone di Sirte e Bengasi, principalmente lo Stato Islamico e Ansar al-Sharia, possano approfittare delle crescenti divisioni negli schieramenti che fino ad ora li hanno arginati sul piano militare per espandersi, oltre a trovare terreno ancora più fertile per il reclutamento e la propaganda in un tessuto sociale sempre più sfilacciato e nell’assenza di qualsiasi garanzia di sicurezza e di servizi di base da parte delle autorità locali.

* Lorenzo Marinone è Analista di Relazioni Internazionali e OPI Contributor

[1] La Camera dei Rappresentanti, nella quale confluirebbe l’attuale Parlamento di Tobruk, diventa l’unica depositaria del potere legislativo. Il Consiglio di Stato, formato da 90 membri del CGN più 30 indipendenti, avrebbe una qualche forma di potere di controllo sul legislativo. Sull’esatto ruolo del Consiglio di Stato, ad ogni modo, resta molta ambiguità, ma sembra che dovrebbe avere perlopiù un carattere consultivo e non vincolante rispetto alle decisioni della Camera dei Rappresentanti. Infine, il Consiglio di Presidenza, che nell’ultima bozza disponibile sarebbe formato da 5 membri in rappresentanza delle diverse fazioni e regioni storiche della Libia, esercita il potere esecutivo ed il controllo supremo delle Forze Armate.

[2] Per la lista completa dei nominativi proposti da León, si veda Proposed Unity Government Nominees, in “Libya Security Monitor”, 19 ottobre 2015. Afferenti a Tobruk sarebbero Fayez Sarraj (Premier), proposto benché non sia mai stato inserito da Tobruk nella rosa delle personalità presentata a León, e Fathi Majbri (vice Premier), attuale Ministro dell’Istruzione di Tobruk. I nomi nell’orbita di Tripoli sarebbero invece Ahmed Maetig (vice Premier), misuratino sostenuto dalle frange del CGN meno inclini all’accordo, e Mohamed Ammar (consulente capo), leader del blocco islamista Wafa nel CGN. Completano l’elenco Omar Aswad (consulente capo) di Zintan, città alleata con Tobruk, e Musa Koni (vice Premier) in rappresentanza delle tribù Tuareg, alleate di Tripoli. Inoltre, León ha proposto come Consigliere per la Sicurezza Nazionale Fathi Bashagha, già portavoce delle milizie di Misurata, e il politico misuratino del CGN Abdurrahman Swehli come presidente del Consiglio di Stato.

[3] La prospettiva di riportare Tripoli al tavolo negoziale in futuro potrebbe inoltre venire compromessa dall’ambiguo ruolo giocato sinora da León. Infatti, all’inizio di novembre indiscrezioni di stampa hanno rivelato un grave conflitto di interessi del diplomatico spagnolo, che per mesi avrebbe scientemente favorito Tobruk per compiacere uno dei suoi principali sponsor, gli Emirati Arabi Uniti. Tali indiscrezioni – se confermate – minano profondamente il prosieguo dei negoziati e anche la credibilità del nuovo mediatore ONU, il tedesco Martin Kobler. Si veda UN Libya envoy accepts £1,000-a-day job from backer of one side in civil war, in “The Guardian”, 4 novembre 2015.

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