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La lingua terza: su Co’e man monche [Con le mani mozzate] di Fabio Franzin

Creato il 11 febbraio 2011 da Fabry2010

di Adelelmo Ruggieri

    Mentre che mi sono deciso di scrivere queste robe che mi rosega dentro, à scuminziato a nevicare
    

Quasi in coda a Co’e man monche [Con le mani mozzate] di Fabio Franzin (Le voci della Luna, 2011) sventola il tricolore italiano; appena dopo – la sola poesia motivata al centro del libro – nelle due pagine finali c’è un pioppo: nella pagina di sinistra è chiamato nel dialetto dell’opitergino-mottense, piòpa, nella pagina di destra pioppo.
E di sicuro Il pioppo che chiude questa raccolta “di delusioni e aspettative mortificate, di ansie sul presente e impossibilità di futuro” (Manuel Cohen in prefazione) molto ci lascia pensare, perché questo pioppo “svettante / nel cortile della scuola elementare” che Franzin guarda “seduto su una panchina del parco” è l’albero che è, ma, insieme, è anche l’albero del transito, del tramite… E è anche la forma che si dà Leuke, e che Ade porta via con sé per porre accanto alla fonte della memoria, e da cui Ercole – compiuta la dodicesima e cerberesca fatica – staccherà alcuni rami per intrecciarne una corona da porre sul capo, a significare la rinascita dopo la morte momentanea.
Ma qui in “Co’e man monche” non c’è nulla di tutto questo arsenale mitico o fiabesco che sia: il pioppo è lì, per quello che è, nel cortile della scuola elementare e Franzin lo guarda; è una giornata triste di novembre, “triste di temporale”, ma è triste anche “per questa crisi che non / passa, dopo un anno e mezzo // da cassaintegrato, il lavoro sparito”.
Franzin guarda l’albero: si è quasi per intero spogliato; è rimasta solo una corona di foglie “là in punta – quasi una corona, un pennacchio ridicolo”.
Non è la corona favolosa del mito e del tramite, tutt’altro:
In questo pioppo vedo iscritta la realtà:
nessun autunno, nessun inverno mai
spoglia chi si è arrampicato in cima

alla scala, al nido ricolmo di soldi
nessuna foglia si staccherà a cadere
nel fango, in una pozzanghera d’acqua
torbida, lordata dal guano,
calpestata dai passi, dalla storia.
Siamo dunque in un rovesciamento vero e proprio: quello di quando il mito e la fiaba si smentiscono o si contraddicono, e a tale maniera si mostra la realtà, e sbugiarda la menzogna che gli è sottesa: quel “nido ricolmo di soldi”, quelle foglie in alto che non si staccheranno mai, costi quel che costi, per cadere “in una pozzanghera d’acqua / torbida, lordata dal guano, / calpestata dai passi, dalla storia.”
Appena prima dell’albero che chiude c’è questo tricolore che sventola (come in chiusura tremolerà quel pioppo); e qui accade un’altra esemplare eccezione, perché uno che legge si aspetta che il libro continui dappertutto con le sue “due” lingue: la lingua natia del qui sulla pagina di sinistra, e la lingua veicolare-referenziale del dappertutto e del là sulla pagina di destra. E invece Franzin dopo le quattro sezioni “in poesia” che registrano “i sentimenti e il dolore di un mondo che non tiene più, fra elementi di critica politica e sociale, tra bollette da pagare, mutui, e stipendi che sono finiti” (ancora Manuel Cohen) fa due cose: la prima è di affidarsi a tre “prose del tricolore”, la seconda è di consegnare l’ultima di esse a una lingua ulteriore, terza.
Nella prima di queste prose è raccontato “il verde”, è il verde di un “Numero verde” “per gli imprenditori in difficoltà”, “… un bel gesto … però anche in questo frangente nessuno ha pensato a istituire un numero verde anche per tutti quegli operai che hanno perso il loro lavoro”.
Nella seconda è raccontato il bianco: “Bianco. Neve e fantasmi”. È lo sbando delle ore, il sonno che non arriva per troppo riposo forzato, quasi peggio del lavoro forzato; sono le notti in bianco da disoccupato; e poi è la neve sui capannoni, con il poeta – operaio cassaintegrato che non prende sonno e va sul terrazzino a fumare. È il bianco delle tre di notte: “Bei fiocchi grossi in un silenzio assoluto” e allora esce, raggiunge i capannoni sotto la neve. Ed è il bianco, infine, dei panni stesi ad asciugare, quando ritorna “da quella pazzia di guardare la fabbrica con la neve”. Tanto per il verde che per il bianco le pagine continuano a specchiarsi, da una parte l’Opitergino-Mottense, dall’altra l’Italiano.
Ma ecco che arriva il rosso: è il colore del “camioneto” del piccolo Gionatan. Qui le pagine non si specchiano più e le due lingue (quella neo-dialettale e quella nazionale) si mescolano “in una sorta di pastiche o patois linguistico fra l’italiano e un dialetto Veneto sui generis”, “un idioma costellato di errori e cadute vernacolari, ma carico di umanità”. È l’idioma delle lettere spedite “a casa” dagli emigranti veneti dei primi decenni del ‘900 o di quelle spedite dal fronte della “Grande guerra”: l’idioma – il particolare – che viene opposto a quel sempiterno “nido ricolmo di soldi” lassù in alto, a quelle foglie ammaliatrici – spesso scellerate – che “nessun autunno, nessun inverno” ce la fa a staccare.
Fermo, Febbraio 2011
****
‘A piòpa
Sentà te ‘na panchina del parco
varde chea piòpa piantàdha tel
cortìo dea scuòea elementare,
chea piòpa granda fa un paeàzh

la varde te ‘sta zornàdha trista
de novembre, trista de nùvoeo,
sì, ma anca pa’sta crisi che no’
se sfanta, dopo un àno e mèdho

da cassaintegrà, el lavoro sparìo
parfìn dai pensieri, daa speranza.
La varde, chea scoa de rame nude,
de scarabòci neri contro ‘l griso.

Sol là in alt, là in ponta – squasi
‘na corona, un penàzh rìdicoeo,
come un schèetro col peruchìn –
‘ncora tute quante tacàdhe ‘e fòjie.

Te ‘sta piòpa vede scrit ‘a realtà:
nissùn ‘utùno, nissùn inverno mai
spòjia chi che l’é ‘rivà in zhima
aa scàea, al nido colmo de schèi,

nissùna fòjia se stacarà ‘a cascar
tel paltàn, te ‘na pòcia de aqua
slòzha, sghinzhàdha dai schiti,
schinzhàdha dai pie, daa storia.
*
Il pioppo
Seduto su una panchina del parco
guardo quel pioppo svettante nel
cortile della scuola elementare,
quel pioppo imponente come un palazzo

lo guardo in questa giornata triste
di novembre, triste di temporale,
sì, ma anche per questa crisi che non
passa, dopo un anno e mezzo

da cassintegrato, il lavoro sparito
persino dal pensiero, dalla speranza.
La guardo, quella ramazza
di scarabocchi neri contro il grigio.

Solo là in alto, là in punta – quasi
una corona, un pennacchio ridicolo,
come uno scheletro col parrucchino –
ancora tutte quante appese le foglie.

In questo pioppo vedo inscritta la realtà:
nessun autunno, nessun inverno mai
spoglia chi si è arrampicato in cima
alla scala, al nido ricolmo di soldi,

nessuna foglia si staccherà a cadere
nel fango, in una pozzanghera d’acqua
torbida, lordata dal guano,
calpestata dai passi, dalla storia.



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