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La macchia (Prima parte) – di Morena Fanti

Da Marcofre

La scrittrice Morena Fanti (tra gli autori del romanzo “In territorio nemico“), mi ha regalato questo suo racconto. Si intitola: “La macchia”. Questa è la prima parte.
La seconda sarà pubblicata alle ore 14.00.
Morena ha nel cassetto degli ottimi racconti (lo so, non vuol dire niente se lo dico io), con un titolo azzeccato; di quelli che quando ti ci imbatti, e sei in libreria (o su IBS), dici: “Interessante”. Dovrebbe scriverne degli altri, per rendere l’opera più corposa, ma latita da un po’. Chissà che in questo modo, non le torni la voglia di portare a termine una bella opera. 

Buona lettura.

Lo sente anche con la porta chiusa; lo sfrigolio delle luci dell’albero di Natale arriva fino al letto dove è sdraiato. È solo il sette dicembre, dovrà sopportare quel rumore per un mese intero. Aldo si volta verso il muro ma lo sfrigolio rimane. Si concentra sulla parete bianca: la macchia d’umidità nell’angolo si è ingrandita, ora assomiglia a un orso arrabbiato, la bocca aperta in un ghigno e i denti appuntiti.

Aldo raccoglie la coperta che sta scivolando a terra e la tira sotto il mento; si avvolge nella lana a quadri ma la sensazione di freddo non se ne va. Non riesce più a dormire; ormai passa i giorni a letto e le notti a rigirarsi tra le lenzuola.

L’allarme del cellulare gli ricorda l’antidolorifico delle sedici, come gli ha ricordato l’antibiotico delle dieci e gli ricorderà il cortisone delle venti. Ormai solo dalle compresse capisce la scansione del giorno; il tempo è una barca che traghetta pastiglie bianche e capsule rosse.

Si alza su un gomito, prende le compresse già preparate su un quadrato di garza, proprio come all’ospedale, e le inghiotte con un sorso d’acqua. Un conato di nausea gli stringe lo stomaco e gli ributta un po’ d’acqua in gola. Inghiotte di nuovo e si lascia cadere sul letto. Il lenzuolo è bagnato di sudore ma ormai non ci fa più caso.

Due tocchi alla porta precedono l’ingresso della madre e del tè che non berrà. Lui rimane fermo, con gli occhi chiusi, sperando che lei esca subito; sente il rumore del piattino che viene posato sul comodino e i passi della madre che raccoglie qualcosa dal pavimento. Spera che lei capisca, ma sa che non accadrà. Quando i passi si fermano, si irrigidisce.

«Se ti alzi, ti rifaccio il letto. Con le lenzuola pulite staresti meglio».

Non risponde, lei rimane un po’ e poi esce, Aldo si concentra sulla visione di una grossa mano che cancella il mondo. Ma la cosa che vorrebbe davvero cancellare è la scena che lo ossessiona, il dottor Pasquini che gli comunica la diagnosi e gli dice quel nome, quel “Linfoma non Hodgkin” che non sembra poi così male. Aveva chiesto al medico: Se si chiama “non”, significa che è meno brutto del paragone?

No, aveva risposto il dottor Pasquini. Il linfoma non Hodgkin fa parte di un gruppo di linfomi che si presentano in modo più virulento della famiglia opposta, il linfoma di Hodgkin. Lascia andare un’imprecazione che sovrasta lo sfrigolio delle luci.

Sente la madre in cucina che traffica con le pentole e il padre che cambia canale. Il telefono squilla e il padre abbassa il volume prima di andare a rispondere. Lo ascolta salutare Giovanni, capisce che sta alzando la voce in modo che lui senta e chieda di passargli la telefonata. Il padre, dopo il consueto scambio di notizie su di lui e sulla sua malattia, riattacca. Il volume della tv torna ai livelli soliti e Aldo apre le mani: le dita sono rigide e si stendono a fatica.

Li sente parlare in cucina, capisce che discutono se è il caso di fargli sapere della telefonata di Giovanni. Pochi secondi dopo, la porta si apre e il padre dice: «Era Giovanni. Vorrebbe venire».

Lui capisce che non se ne andrà senza una risposta, non è come la madre, e dice: «Non voglio nessuno».

«Isolarti non ti aiuterà».

«E cosa mi aiuterà, papà? Tu mi aiuterai? La mamma mi aiuterà? Ho un tumore! Niente mi può aiutare. Chiudi la porta quando esci».

Lo sforzo lo fa cadere sdraiato, ansimante. Ha la bocca secca e le labbra così tirate da creparsi. Prende la tazza del tè e lo trangugia. Butta la tazza contro l’armadio, ascolta il rumore della porcellana che si rompe e sente una bolla d’aria salirgli nello stomaco.

***

La luce che filtra dalla tapparella gli fa capire che la notte sta finendo. Ha la visita di controllo e gli tocca alzarsi e lavarsi. Scende dal letto, si guarda la maglietta grigia; è senza mutande e le gambe sono secche. Una volta in uno zoo c’erano dei cavalli e uno, color rossiccio, era così magro che le zampe pareva dovessero rompersi. Lui aveva solo otto anni ma non l’aveva mai dimenticato. Si guarda di nuovo, osserva la macchia nera dei peli e quella cosa inutile che penzola in mezzo. Sono mesi che non ha un’erezione.

Toglie la maglia e la lascia cadere a terra, va in bagno e si infila nella doccia. La visione delle visite precedenti si mescola con le scene dei ricoveri e con i giorni della chemio, quando la nausea gli impediva di mangiare e trascorreva delle ore in bagno.

La morte non gli fa paura; quello che teme è la solitudine: quando muori sei sempre solo anche se intorno al letto c’è qualcuno che ti tiene la mano. Si vede nel letto con la flebo infilata nel braccio, le gambe magre che sollevano appena il lenzuolo. Molla un pugno alle piastrelle azzurre e lascia andare un “fanculo” che fa tremare i vetri. Chiude l’acqua mentre la madre alza la tapparella in cucina.

In macchina stanno tutti e tre in silenzio, il padre guida e lui guarda fuori dal finestrino; si domanda perché la gente che cammina per strada non ha un tumore. Perché sono tutti sani? Perché è toccato a lui? Li guarda con rabbia e poi osserva il profilo del padre: ha cinquantatré anni e non ha mai avuto un giorno di malattia. Poteva toccare a lui, che ha già vissuto. O alla madre che è seduta dietro con quella sua espressione da madonna, lo sa anche senza voltarsi, che sembra che sia lei che soffre e invece è lui.

Il medico ha detto che è tutto fermo, che la malattia non è avanzata. Può stare tranquillo, ha detto. Come può essere tranquillo uno che sa che sta morendo e che è assediato da gente piena di salute; Aldo sa che “loro” non vogliono averlo tra i piedi, non vogliono guardare la malattia attraverso lui. È entrato da solo nello studio del dottor Pasquini; i genitori l’hanno atteso seduti nella sala d’aspetto. Quando è uscito lo hanno guardato con gli occhi pieni di speranza ma lui si è diretto all’uscita facendoli correre per stargli appresso. Non ha detto nulla della visita e ha ignorato le loro occhiate affamate; fare finta di non vederli gli procura piacere, è un piccolo rimborso di tutto quello che deve subire.

Entrano in casa e lui si infila subito in camera, chiude la porta e si lascia cadere sul letto che la madre, approfittando della sua doccia, gli ha rifatto con le lenzuola pulite. Avvicina il naso al bordo ben piegato e odora quella normalità che non gli appartiene più. Vorrebbe strappare le lenzuola e gettarle a terra, pestarle e farne un falò, ma la visita l’ha stancato, si spoglia e si sdraia sotto quel profumo di ammorbidente.

Si addormenta senza accorgersene e quando si sveglia il giorno sta calando e dalla finestra entra la luce dell’insegna del bar di fronte. Le compresse sono sul comodino e la tazza del tè indica che la madre è entrata. La sveglia segna le diciassette e lui prende le pillole e le mette in bocca; il tè è freddo e gli annega lo stomaco ricordandogli che non mangia nulla dalla sera prima.

Resta sdraiato mentre il buio aumenta. Pensa alla gente che ha visto: uscire dopo tanto tempo gli ha ricordato che le persone fuori da quella casa si divertono, vanno in giro a fare compere, forse acquistano i regali di Natale.

Un rumore lo distrae dalla sua visione; sente i genitori che parlano in cucina e si sorprende di sentire una risata. Resta in ascolto per capire il motivo di tanta gioia, poi butta giù le gambe dal letto e si alza.

Quando il padre sente il rumore della porta, distoglie lo sguardo dallo schermo televisivo, fa segno alla moglie che smette di mescolare il risotto e fissa gli occhi sul bordo sbeccato della scodella su cui posa il cucchiaio. La donna si allontana dal fornello e prende in mano una grattugia che sta sul ripiano e un pezzo di parmigiano. Alza gli occhi quando Aldo entra in cucina e finge di essere sorpresa.

«Hai fame?», chiede.

Lui sa che lei si aspetta un no. «Sì. Cosa c’è per cena?», chiede sedendosi.

Il padre lo guarda di sottecchi: vorrebbe chiedere qualcosa ma esita.

«Non ci hai detto niente della visita», si decide infine.

La madre smette di grattugiare il formaggio e si ferma con il parmigiano alzato e la mano sinistra che regge la grattugia.

«Tutto bene. Il tumore c’è ancora. Allora, cosa si mangia?»

La madre appoggia la grattugia, sembra giudicare che il parmigiano basti e fa i piatti. Quello di Aldo è pieno ma lui non brontola come fa di solito e inizia a mangiare con voracità. Si sente solo la voce del giornalista di Rai Uno. I suoi genitori si lanciano delle occhiate veloci quando pensano che lui non li veda, ma non osano fiatare. Gli sembra che abbiano un’aria mesta. Aldo finisce di mangiare e si appoggia allo schienale. Rimane così mentre il padre mangia l’insalata che lui ha rifiutato.

È al momento della sigla, quando il telegiornale sta finendo, che Aldo si alza di corsa e si rifugia in bagno.

Quando esce, con il sapore acido che gli corrode la gola, trova i genitori davanti alla porta con lo sguardo preoccupato; Aldo allontana il padre che vuole aiutarlo, dice: «La cucina di mamma è troppo pesante», e si chiude in camera. Dal letto ascolta il silenzio della casa e non si accorge di addormentarsi.

***

Un’altra settimana è finita. Anche da letto, Aldo sa che fuori ci sono le strade addobbate e la gente che corre a comprare regali. Dentro, invece, c’è molto silenzio, ma resta sempre lo sfrigolio delle luci. Vorrebbe strappare il filo.

La madre sta organizzando il pranzo natalizio e impasta dei dolci che finiranno nelle case dei parenti, l’ha vista mentre andava in bagno.

Se almeno le giunture non gli facessero così male; si tiene un gomito mentre cerca di muovere la spalla. Il dolore gli fa stringere i denti. A otto anni aveva avuto un’influenza con la febbre molto alta. La febbre se ne era andata dopo pochi giorni ma gli aveva lasciato dei tremendi dolori alla schiena: anche allora era stato a letto a lungo. Ma in quell’occasione la madre entrava sorridendo e gli parlava a voce alta, raccontandogli tutto ciò che succedeva fuori dalla sua camera. Il padre tornava dal lavoro e passava subito da lui per vedere come stava.

Ora, invece, i suoi genitori camminano in punta di piedi e parlano sempre meno e mai in sua presenza; si sente come un ospite a cui si deve usare riguardo. La sera prima si è alzato per cenare a tavola con loro e li ha trovati sciupati, la pelle grigia e gli occhi senza vita. Gli ha fatto piacere vederli così: il loro figlio sta morendo e non hanno nessuna ragione per stare bene.

***


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