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La mafia uccide solo d’estate

Creato il 04 gennaio 2014 da Povna @povna

Quando è arrivata al nord, lo scorso 30 dicembre, la ‘povna dalla stazione ha proseguito direttamente verso il cinema e, insieme a Thelma, BibCan, Piton-che-non-è-Snape, il Pianoforte, Mamma D., Luna, Le Hero, Canta-che-ti-passa e il Signor M., è andata a vedere il film di Pif.
All’uscita, i pareri erano discordi: “problemi di sceneggiatura”; “troppo didascalico”, “molto bello”; “divertente e adatto”. La ‘povna in realtà concorda con tutti, perché (per restare alle critiche), sicuramente qualche eccesso mélo (o di ridondanza) nella sceneggiatura è presente, ed è indubbio che la voce fuori campo renda tutto molto, molto didattico. Nello stesso tempo a lei il film è piaciuto molto, per quello che è, e quello che vuole essere: proprio per questo lo consiglia anche su Slumberland, anche perché le sembra che l’operazione culturale, consapevole, sia di quelle che vale la pena sostenere.
La mafia uccide solo d’estate, infatti, è figlio di quella stessa vis documentarista pimpante che ha portato Pif al successo. In altre parole, la volontà di parlare di mafia – che cosa sia stata, come, perché, quando – si indirizza non tanto (o non solo) alla generazione dei quarantenni (quelli cioè che sono nati insieme alle grandi stragi e agli anni di Piombo, che hanno vissuto perciò quei fatti dentro la pancia, ma senza adulta consapevolezza, delineati come categoria intelligentemente critica da Miguel Gotor in questo libro) e nemmeno (va da sé) a quella dei loro genitori (teoricamente consapevoli). E’ un progetto, viceversa, scritto per le generazioni nuove, i ragazzi degli anni Novanta, quelli, tendenzialmente, nati già dopo le stragi di via D’Amelio e di Capaci.
E’ possibile raccontare a questa Italia giovane una storia ancora non storicizzabile, né digerita, evidentemente, rinunciando ai ferri del mestiere di una cronaca che, nel passaggio agli anni Zero, ha fatto già il suo tempo? Come si fa a rendere cruciale, a far capire che ci sono eventi che, per una classe di italiani, si sono incisi nella pelle, senza rinunciare al rigore, al dovere morale, alla durezza, ma nello stesso tempo parlando il ritmo, i colori, i tempi della generazione dei nativi digitali?
Sono queste le domande dalle quali il film sembra partire, senza dubbio, e sulle quali il regista ha riflettuto con intelligenza. Il risultato è una mescolanza voluto di privato&pubblico, a sottolineare come lo Stato di emergenza del ventennio Settanta-Novanta (e che attraversa, perverso, gli anni Ottanta del comune edonismo) sia stato formato da una serie di eventi, di modi di dire, fare, essere che facevano quotidiana sostanza, prima ancora che civile indignazione. In questo contesto, l’eroismo del quotidiano di Chinnici, Dalla Chiesa, Pio la Torre, si fa vita di tutti i giorni, quella che un bambino (Arturo, il protagonista) incontra nella sua Palermo, senza comprendere, con il suo sguardo infantile (che giustamente è stato paragonato a quello di Pin, nel Sentiero dei nidi di ragno) e proprio per questo referenziale e oggettivo nell’interpretazione di parole e fatti, la rete di sottotesti, complotti, parastato, e tutto il resto nella quale ha avuto in sorte di camminare.
Alla luce di tutto questo, la scelta di Pif è parsa alla ‘povna benemerita, e riuscitissima. Tanto che ne ha avuto una diretta conferma all’uscita della proiezione, interrogando Luna e Le Hero (rispettivamente classe 2000 e 2004) sull’argomento. E l’attenzione persuasiva che ha letto nei loro occhi le ha confermato che questa cinematografia dell’impegno emotivo può essere, proprio per questo (e qui parla anche e soprattutto da insegnante), una buona strada.


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