Questa che v’apprestate a leggere è la prima parte di cinque articoli in ossequio ai Memphis Grizzlies. Gli scritti verrano pubblicati con una cadenza di cinque giorni, quindi potrete leggere la Parte II giovedì 22,
Buona lettura
Nessuno sa in anticipo ciò che avrà successo.
-William Carlos Williams
“Your son is going to be a loser”; parole aspre e prive di cattiveria, una mera considerazione che il capo di Bob Wallace non aveva potuto trattenere parlando con il suo dipendente. Questa profezia tormentava Bob, padre di Chris; gli lacerava l’animo perché sapeva quanto l’esito di quella infausta frase fosse plausibile.
Chris Wallace viveva ancora con i suoi genitori, benché avesse più di vent’anni. Aveva tentato l’università due volte, salvo abbandonarla due volte. In quel periodo raccoglieva la spazzatura nei dormitori di Kansas University e controllava che venissero rispettati i turni alle slot machines nei casinò. Saltuariamente lavorava come rappresentante di un candidato della West Virginia al Congresso; il suo compito era di racimolare qualche voto, ma veniva inviato in luoghi inabitati dove lui e la sua condanna ad essere un perdente erano soli.
Nell’oscurità dei fallimenti e delle delusioni, una luce illuminava l’esistenza di Chris: un gioco nel quale, per vincere, bisogna buttare una cosa rotonda dentro un’altra cosa rotonda: basketball.
Poiché non possedeva i mezzi fisici per praticare questo sport, sin da giovane desiderava narrarlo scrivendo su riviste. La velleità giornalistica di Chris era mitigata dalla mancanza di una laurea e così si era limitato nel tenere un annuario riguardante la pallacanestro universitaria chiamato Blue Ribbon College Basketball Yearbook.
Il giovane aveva poco talento con la penna in mano e nessuna casa editrice avrebbe voluto stampare la sua pubblicazione. Ma era talmente infatuato dall’arancia che caparbiamente dettò, tramite telefono dallo scantinato dei suoi genitori alla segretaria dello studio legale di suo padre, ogni singola parola dell’almanacco fino ad arrivare a 350 pagine. L’annuario venne stampato e distribuito con il denaro familiare, dissipando 18000 dollari che Chris avrebbe dovuto restituire ai suoi parenti a causa del numero avverso delle vendite.
Il 15 giugno 1986 la cocaina soverchiò Len Bias, uccidendolo per mezzo di un arresto cardiocircolatorio. Bias era la seconda scelta assoluta al Draft 1986, selezionato dai Boston Celtics campioni del mondo in carica. Morì due giorni dopo essere stato scelto in quello che la storia identificherà come il “cursed Draft”, il Draft maledetto . Sul giocatore non aleggiavano sospetti di uso di droghe e ciò fece capire alla NBA quanto importante fosse la conoscienza delle abitudini dei propri giocatori e della loro psicologia. L’incuria delle franchigie nell’apprendere informazioni riguardanti la famiglia degli stipendiati e l’ambiente in cui sono cresciuti si manifestò. Il mondo NBA fu mutato da quella morte.
Jon Spoelstra -anticipatore dei tempi che scrisse un libro intitolato How to Sell the Last Seat in the House (comprabile solo per le squadre professionistiche a 800 dollari) e straordinario comunicatore, nonché allora General Manager dei Portland Trail Blazers- lesse fugacemente una copia di Blue Ribbon College Basketball Yearbook, annuario di Wallace. Lo incuriosì, e aveva bisogno di qualcuno che conoscesse i giocatori di college e le loro vite, affinché errori come quello commesso dai Celtics non fossero ripetuti.
Wallace venne assunto da Spoelstra nei Blazers e a 32 anni cessò di abitare con i suoi genitori. Il rapporto fra i due era florido e Chris non si doveva preoccupare di raccogliere la spazzatura per arrancare in una vita greve. Nel 1989 Spoelstra andò ai Denver Nuggets, come GM, trovando un incarico per Wallace: “director of college scouting”. Tre mesi dopo, però, Spoelstra fu licenziato; e a nove mesi dalla sua assunzione, anche Wallace.
Chris tornò ad ingoiare l’esistenza da vinto. Deciso a smentire il collega di suo padre, per due anni continuò a lavorare nel mondo dell’arancia grazie a collaborazioni con riviste specializzate e presenze a camp per allenatori.
Dopo due anni di purgatorio, il paradiso chiamato National Basketball Association si delineava nel fato del figlio di Bob. Nel 1993 fu assunto dai Miami Heat per 25000 dollari annui come “coordinator of scounting service”, dopo poco tempo cambiò ruolo e divenne “director of player personell”. Durante l’anno 1996 terminò l’esperienza giornalisitica con Blue Ribbon College Basketball Yearbook a causa degli incipienti impegni lavorativi.
L’assunzione che sconquassò la vita di Chris fu da parte dei Boston Celtics, nel 1997. Essendo ancora sotto contratto negli Heat, i Celtics dovettero cedere la seconda scelta al Draft 1997 (tramutatasi in Mark Sandford) per averlo. In seguito a tre anni di fatica nel front office biancoverde conquistò il posto di GM nella franchigia stessa.
Il vuoto lasciato in Florida era profondo, perciò gli chiesero chi potesse sostituirlo degnamente. Wallace indicò come vicario un ragazzino con un grande sogno in mente -proprio come era lui quando dettava dalla cantina di casa le pagine per il suo libro alla segretaria del padre: Erik Spoelstra, figlio di quel Jon che gli diede fiducia ai tempi dei Blazers.
La gloria, è risaputo, forma un connubio inscindibile con i biasimi. Wallace ricevette molti di quest’ultimi dopo uno scambio che portò Rodney Rogers e Tony Delk a Boston, mentre Joe Johnson, scelto dallo stesso Wallace con la decima assoluta al Draft 2001, lasciò i Celtics per arrivare ai Phoenix Suns e diventare un cinque volte All-Star. Nello stesso Draft, Boston possedeva anche l’undicesima scelta (arrivata dai Denver Nuggets) e la spese a favore dell’high schooler Kedrick Brown, nonostante Zach Randolph fosse ancora sul tabellone. Ciononostante Boston giunse fino alle Conference Finals nel 2002, risultato più prestigioso dal 1987 (15 stagioni), grazie al giocatore franchigia Paul Pierce che, MVP delle Finals nel 2008 e nove volte All-Star, fu scelto nel Draft 1998 con la decima chiamata assoluta da Wallace.
Oggi Chris Wallace è un uomo. Ogni venerdì sera guarda una partita di football a livello liceale; non è un “loser”, come avevano profetato. Guarda la televisione ebraica, sebbene non sia ebreo, finanzia una associazione a favore di Israele -nazione della quale si è innamorato dopo aver studiato la Guerra dei sei giorni (1967). Ha una moglie, di nome Debby, e un figlio, che ha chiamato Truman -in ossequio alla storia piena di sofferenze e tormenti che anche l’ex presidente degli Stati Uniti ha dovuto attraversare.
Continua ad accarezzare lembi d’eternità lavorando dal 2007 per i Memphis Grizzlies come GM -sostiuendo Jerry West. Nelle ombre della franchigia del Tennessee, fatica anche l’owner Mike Heisley; personaggio curioso e conturbante in questo romanzo. Heisley per essere in grado di pagare la retta a Georgetown University svolgeva due lavori e dormiva sulle umide e fredde panchine dei parchi pubblici. Diventato ricco grazie all’industria, secondo Forbes ora vale 1.6 miliardi di dollari. Acquistò i Vancouver Grizzlies nel 2000, giurando che li avrebbe mantenuti nella città canadese; ma il Clay Bennett ante litteram trasferì la società a Memphis, che quest’anno festeggia il decimo anniversario di esistenza nella terra di Elvis. Una decade che potrebbe essere durata un lustro, perché l’owner nel 2006 aveva raggiunto un accordo per vendere il 70% della società a un gruppo di investitori capegiato dagli ex giocatori Chris Laettner e Brian Davis, ma l’acquisto non venne concluso per un’eccessiva dilazione nell’accordo.
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