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La maschera nera di Klaus Kinski

Creato il 10 dicembre 2013 da Fascinationcinema

 

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«Un figlio di puttana» (Jesus Franco), «Feroce come una belva» (Pasquale Squitieri), «Un folle, terribile e violento» (Natassja Kinski), «Un uomo a cui la legge scritta non importava» (Werner Herzog) – dicevano. Poi, nel febbraio del 2007, tra le cartelle cliniche del Städtische Irren-und Idioten-Anstalt zu Dalldor, la conferma: «Il paziente – scrive la commissione medica che lo ebbe in cura nei primi anni Cinquanta – mostra una personalità egocentrica e incorreggibile che non si adatta a nessun rapporto civile» perseverando «con ostinazione nella sua visione egocentrica del mondo […]. E conclude: «Diagnosi momentanea: schizofrenia – stato definitivo: psicopatia».

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E così oggi sappiamo che, al di là di una lunga carriera cinematografica, le collaborazioni con autorevoli cineasti del calibro di David Lean, Sergio Leone e Werner Herzog, una nomination all’Oscar e il titolo di Commender de l’ordre des Artes e des Lettres conferitogli dal presidente della repubblica Francese, Klaus Kinski era un pazzo. E la cosa non sorprende affatto. Eccessivo, spregiudicato, attaccabrighe, megalomane, Kinski. Ripudiato dagli affetti più cari, detestato dai colleghi per il suo narcisismo patologico, disprezzato dalle sue compagne di lavoro che, non di rado, finivano vittime delle sue intemperanze erotiche, temuto dai produttori e registi di mezzo mondo (che però continueranno a corteggiarlo ammaliati dalla sua maschera tragica), Klaus Kinski è stato certamente il più perverso e irresponsabile attore mai vissuto. E’ lui stesso a rivendicare l’imprimatur dalle pagine della sua autobiografia All I need is love (1975) che altro non è che un compendio di aberrazioni e depravazioni sessuali più ascrivibili al «Manuale diagnostico e statistico della malattia mentale» che alla vita di un protagonista del cinema. Nelle oltre trecento pagine che compongono l’opera, Kinski ripercorre con la consueta spavalderia le tappe della sua esistenza off limits (dalla nascita in Polonia agli anni berlinesi, la guerra nelle file del terzo Reich e l’internamento in un campo di concentramento, e ancora, l’esperienza del manicomio, la svolta artistica – in teatro e al cinema – e infine il grande successo internazionale), interamente votata all’eccesso e che lo condurrà, nel 1991, alla sua prematura scomparsa a sessantacinque anni. Lo stile è quello istrionico di Kinski: iperbolico, passionale, provocatorio; un’invettiva contra personam tra l’epopea di Gilgamesh e l’oltraggio, l’oratoria classica e la boutade tra amici, eppure, tra le pieghe della memoria trovano spazio alcuni momenti di rara intensità come quando – nel ricordo commosso di un Natale povero ormai lontano nel tempo, Kinski scrive: «E ‘ancora buio quando mi sveglio sul pavimento freddo e sento mia madre piangere. Mi do un buffetto sulla faccia per vedere se sto sognando. Mi fa male. Quindi questa è la realtà. I miei occhi si adeguano immediatamente alle tenebre. Mia madre non può essere troppo lontano da me. A destra. Si siede al tavolo tenendosi la faccia con le mani. Mi avvicino per accarezzarla barcollando verso di lei. Trovo entrambi i miei fratelli aggrappati alle sue cosce. Mia sorella dorme in piedi, la testa di lato sul tavolo. Alla finestra, la silhouette di mio padre sbuca dalla notte; sembra stia fissando immobile la neve.»

Ma chi è stato veramente Nikolaus Karl Günther Nakszyński, al secolo Klaus Kinski? Uno psicopatico o un attore geniale? Un artista incompreso o un uomo irrisolto? E chi si cela dietro all’unico uomo al mondo che sia stato capace di definire pubblicamente Federico Fellini un «maiale grasso», Marlene Dietrich una «lesbica» e mandare a quel paese – ‘reo’ di averlo fatto attendere troppo a un provino – Roberto Rossellini?

Carnagione bianca, volto scavato, grandi occhi vitrei, zigomi sporgenti, naso adunco e labbra carnose, rigate da una fitta cascata di capelli biondi, Kinski è stato innanzitutto una maschera, nella vita come sul set. Una maschera nera, s’intende. Kinski è stato anche un uomo violento. Ricorda Werner Herzog, regista e amico/nemico storico dell’attore – l’uomo che è riuscito a ottenere le sue migliori interpretazioni – che durante la lavorazione di Fitzcarraldo «notte dopo notte, colpito da accessi di furia, [Kinski] picchiava la moglie vietnamita trascinandola sul pavimento e sbattendola contro le pareti» e di come un suo assistente «ogni volta, verso le quattro di mattina, puliva con discrezione le tracce di sangue lasciate dalla donna». Si sprecano, inoltre, le testimonianze di chi fra gli addetti ai lavori è stato vittima, per futili motivi, dei suoi attacchi d’ira che, non di rado, raggiungevano la colluttazione fisica o di attrici letteralmente violentate sui set sotto gli occhi inorriditi della troupe.

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Klaus e Natassja Kinski

Insomma, Klaus Kinski è stato un mostro, nella vita come nel cinema, un uomo votato e vittima del male, in perenne contemplazione di sé stesso (‘Io sono il mio solo dio, la mia sola giuria, il mio solo esecutore’); quel mostro per cui la stessa figlia Natassja (nata dal secondo matrimonio dell’attore con la poetessa Brigitte Ruth Tocki), nel rievocarne la morte, anni dopo dirà: «mi sono sentita triste per trenta secondi, poi mi è subito passata e non sono andata nemmeno al suo funerale». ‘Beghe di famiglia’ – si potrebbe pensare; e qualcuno, infatti, lo ha pensato. Ma quando nel 2013 Pola Kinski, figlia primogenita dell’attore, dà alle stampe L’amore di papà – una storia vera, (libro autobiografico sul suo rapporto col padre), la figura ‘leggendaria’ di Kinski subisce una inquietante riscrittura per assumere il volto subdolo e spietato dell’orco, laddove pedofilia, incesto e stupro, sono le forze impetuose che agiscono l’amore devozionale (e malato) di cui è oggetto la figlia, appena bambina.

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Klaus e Pola Kinski

Anche la lunga carriera dell’attore non poteva che risentire dell’instabilità dell’uomo. Totalmente disinteressato al progetto cui partecipava – e che spesso più o meno intenzionalmente tentava di sabotare – Kinski, in realtà, ambiva a giganteggiare sullo schermo, collezionare il maggior numero di donne possibili e incassare un bel mucchio di quattrini. Sic et simpliciter. E di quattrini ne pretendeva tanti vista l’incapacità a gestirli – dissipandoli in festini, orge, ville e auto di lusso – al punto che, nonostante accettasse qualunque ruolo economicamente vantaggioso, già nel 1972 – stando a Herzog – per il doppiaggio di Aguirre furore di Dio, Kinski chiese (ma non ottenne) la stratosferica cifra di un milione di dollari e, sempre per motivi di denaro, – ricorda lo stesso regista – «ha rifiutato offerte da Kurosawa, Fellini e Pasolini, parlando sempre male di loro come feccia che non lo voleva pagare abbastanza».

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Questo dunque è stato Klaus Kinski; un disturbato mentale, una maschera nera, un violento, un mostro odiato dai colleghi, dalle maestranze e temuto dai produttori. Sempre pronto a fare a botte con chicchessia, gettarsi laido sull’attrice di turno e minacciare l’abbandono del set per una quisquilia. Poi c’è l’altro Kinski. L’attore totale, l’interprete dalla bravura abbacinante, dotato di un’intensità e una presenza sullo schermo che pochi hanno avuto, prima e dopo di lui, e la cui morte ha interrotto una carriera durata oltre quarant’anni con all’attivo più di centocinquanta film girati tra la Germania, la Francia, l’America, l’Italia e la Spagna e che ha dato vita ad alcune tra le più convincenti interpretazioni del cinema internazionale. Chi non ricorda lo sguardo vitreo di Wild il gobbo nel capolavoro di Sergio Leone Per qualche dollaro in più (1965) o la lugubre figura del «non-morto», cranio pelato, volto emaciato e denti aguzzi, nei tratti eterei di un superlativo Kinski in Nosferatu, principe della notte (1978) o ancora, stretto nel suo vestito di lino bianco sgualcito, l’incedere nevrotico di Fitzcarraldo dell’omonimo film, oppure il lascivo sir Stephen che in Les Fruits de la passion del giapponese Shuji Terayama, è impegnato, nella parte del vecchio depravato, in un coito (apparentemente non simulato), o quell’ultimo film, ossessivamente voluto dall’attore, il delirante Paganini (1989), un personale tributo al geniale violinista genovese che altro non è se non l’autobiografia per immagini di un uomo ormai vicino alla morte.

Certo, Kinski è stato anche il re dei b-movies: western, thriller, horror; a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta sono poche le produzioni (soprattutto italiane e spagnole) che non smaniano per annoverarlo nei suoi cast. Se la pellicola prevedeva la parte del cattivo, il suo volto scolpito e rugoso era garanzia di perfetta adesione al ruolo. Attore di mestiere proveniente dal mondo teatrale berlinese dove già nel 1947 esordisce in opere di Jean Cocteau, la maschera di Kinski ha potuto contare su una straordinaria caratterizzazione mimica, capace di far riaffiorare sul volto, all’eco del ciak, l’intero spettro delle emozioni umane. Sommo nell’evocare sentimenti cupi nei ruoli del folle o disadattato ma altrettanto abile nel costruire un’espressione attorno a un guizzo di felicità o un momento d’intima tenerezza. Ed è proprio la sua grande intensità ad armare la mano ai detrattori che, da sempre, lo accusano di aver svenduto il suo talento senza curarsi delle qualità del film. La critica coglie nel segno: La belva (1970) di Mario Costa, La bestia uccide a sangue freddo (1971) di Fernando di Leo, Che botte ragazzi! (1975) di Bitto Albertini, Schizoid (1980) di David Paulsen, Venom (1982), di Piers Haggard e Nosferatu a Venezia di (1988) di Augusto Carminito – solo per citarne alcuni – sono film senza ambizione, operazioni a basso costo perlopiù sorrette sulla maschera proteiforme di Kinski.

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Ma il punto è un altro; negli stessi anni in cui la nomenclatura più blasonata del cinema internazionale annovera figure del calibro di Al Pacino, Dustin Hofmann, Alain Delon, Marcello Mastroianni e Gian Maria Volonté, l’attore polacco rifiuta ogni paragone e rivendica il diritto di continuare a fare la sua «merda» – come era uso definire i suoi film e il cinema in genere. Vittima del suo patologico delirio d’onnipotenza e, in quanto tale, disinteressato ai ruoli che il cinema avrebbe potuto offrirgli, Kinski sente di essere semplicemente un genio, al di là degli uomini e dei loro giudizi. Nessun ruolo, dunque, avrebbe potuto metterne in risalto le sue doti artistiche. E non è un caso che i suoi progetti più ambiziosi lo vedono nei panni di Paganini, il genio assoluto del violino e, addirittura, Gesù, il Cristo. Nel 1971 un Kinski ancora sconosciuto al grande pubblico riempiva i teatri di Berlino e Monaco con il suo Jesus Christus Erlöser, una libera interpretazione del vecchio testamento, suscitando un gran clamore tra il pubblico e la critica. Si tratta di trenta pagine dattiloscritte, solo un canovaccio, attraverso cui Kinski, presentandosi solo in scena nei panni di un Messia moderno, ogni sera arringa le folle tacciandole di conformismo e idolatria ed esaltando il valore della povertà. Ma anche nell’Erlöser la figura del Cristo salvatore, in realtà, è fagocitata dall’ Io bulimico dell’attore che la scarnifica nelle invettive di un agit-prop. La cristologia kinskiana diventa così una provocazione senza alcuna pretesa redentrice, un violento quanto provocatorio attacco alla morale; né vale per lui il precetto cristiano del porre l’altra guancia quando, apertamente attaccato dal pubblico che lo accusa d’incoerenza dati i suoi lauti guadagni, gli sbraita contro riempiendolo di insulti e a chi sale sul palco ricordandogli la misericordiosa bontà di Gesù, rimedia un pugno. Lui non è lì per loro e non loro sono tenuti a giudicarlo. Eppure con l’Erlöser, la maschera nera di Klaus Kinski, volto scavato, occhi allucinati, bocca ricurva, voce rabbiosa, scrive forse la sua pagina migliore (se c’è un’estetica nella rabbia, Kinski furente è un vero un capolavoro espressionista) ma, di converso, evidenzia anche il limite dell’uomo talmente soggiogato dai suoi demoni al punto da abbandonare il copione per intraprendere una vera e propria rissa verbale col pubblico.

La realtà è che Kinski fatica a ridursi dentro il ruolo, qualunque esso sia. Il suo ego smodato glielo impedisce e, dunque, lo ingloba, nullificandolo e, dove gli è stato permesso, ha nullificato l’intero progetto a cui è stato chiamato a partecipare. E’ il caso dello sfortunato Nosferatu a Venezia (1985) uscito nelle sale dopo una travagliata lavorazione costata tre cambi di regia, liti furibonde e rimaneggiamenti di ogni sorta, in cui l’attore, sfuriata dopo sfuriata, si è impossessato letteralmente della lavorazione del film pretendendo e ottenendo di avere l’ultima parola su tutto – sceneggiatura, cast, regia, luci e location – e di fatto compromettendo irrimediabilmente il film. «Sono come un animale selvaggio che è dietro le sbarre. Ho bisogno di aria, ho bisogno di spazio» – aveva detto di sé Klaus Kinski. Dalle sue parole s’intuisce l’insopprimibile esigenza di uomo imprigionato in sé stesso, di tracciare una linea di confine tra sé e gli altri, la necessità di smarcarsi da un mondo di cui lui – è intimamente convinto – non fa parte. E così è stato. Lontano da tutti l’attore muore il 23 novembre del 1991, per un arresto cardiaco, a Lagunitas in California dove da anni viveva da eremita. Le sue ceneri, per volere dell’attore, sono state sparse nell’Oceano Pacifico dal figlio Nikolai, unico membro della famiglia presente alle esequie. Si chiude così la controversa vita di un uomo maledetto e un artista da cui il mondo del cinema, senza ammetterlo, ha imparato molto. Un uomo che ha impegnato tutta la sua vita in una guerra totale contro un mondo da cui non si sentiva amato. Un uomo che nella rabbia ha trovato la sua più grande modalità espressiva. In fondo un uomo che – come esortava un altro celebre figlio della Polonia – ha fatto della propria vita un capolavoro. Nero.

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Stefano Loparco

 


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