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La maschera ritratto di Maurizio Cucchi

Creato il 23 gennaio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da lapoesiaelospirito su gennaio 23, 2012

di
Fabrizio Fantoni
 
​Un vagone ferroviario semivuoto in corsa verso una cittadina di frontiera, una tranquilla gita al confine. Sono questi gli elementi che portano il protagonista dell’ultimo romanzo di Maurizio Cucchi – “La maschera ritratto”, Mondadori € 18,00- a riannodare il legame con il mondo della sua infanzia e di suo padre Gino, un uomo silenzioso, sognante e poetico che cinquant’anni prima si era tolto la vita.
​Un viaggio nella memoria veicolato  dal contatto fisico, diretto con le cose  che appartenevano a Gino: il distintivo di invalido di guerra che portava all’occhiello della giacca, un pacchetto di nazionali sbriciolate, il portafoglio, un astuccio rosso con il rasoio. Oggetti semplici, che  custodiscono il ricordo dei suoi ultimi istanti di vita e che ora, come un meccanismo dopo la carica, tornano a vivere restituendo la memoria di quegli attimi che cinquant’anni prima aveva dato senso alle loro esistenze.
​E così, ecco, che dalla trama ruvida di una benda elastica, dall’immagine sbiadita di una vecchia foto in bianco e nero, riemerge la figura di un bambino taciturno e un po’ impacciato che felice segue il padre in lunghe passeggiate nei prati bagnati di rugiada delle valli bergamasche, o che emozionato lo stringe sul sellino di una lambretta durante una gita a San Marino e che ora da adulto, sicuro e consapevole, torna  sui luoghi dell’infanzia per accompagnarlo nel suo ultimo giorno di vita, per ripercorrerne i passi, i gesti estremi fino a quelle ultime tre parole pronunciate poco prima di morire:”non ha importanza.”
​Riecheggia, in queste pagine, la grande poesia di Cucchi. Mi riferisco, in particolare, al componimento “Lettera e preghiera 2”: “Un senso di quiete strana/ e di ristoro affettuoso./ Un vero amen./ Qui, almeno, nel campo di un confine,/ ti ho seguito passo passo, e tutto/ è stato come si deve, lineare e logico,/ pacificato./ Terzo albero a destra, lungo la strada/ un cappello, pantaloni blu, e l’impugnatura/ sinistra. Il rimbombo/ alle sei di sera, come un segnale/ dei contrabbandieri./ Seduto nella stessa stanza, allo stesso tavolo/ allo stesso posto, come se fosse stato/ ieri, come se tutto fosse stato/ normale./ Ma a quel pensiero per me,/ a quel piccolo messaggio d’affetto,/  non potevi che dire quelle tre parole, una condanna: Non ha importanza./ No, non aveva importanza,/ mio per sempre e più di sempre/ amatissimo.”
​La “ Gita al confine” ( titolo dato alla prima sezione del libro) si definisce dunque come il tentativo di un uomo di confrontarsi con  un evento tragico del passato che costituisce uno spartiacque, un confine appunto, che separa la sua vita in un prima e un dopo: un prima fatto di una serena fanciullezza trascorsa sotto la rassicurante presenza paterna e un dopo fatto di un’adolescenza triste e solitaria. Il tutto senza mai cedere ad alcuna forma di pathos, ma portando ogni cosa ad una linearità, ad una regolarità di fondo, da cui scaturisce quella “serenità commossa” di cui parla Cucchi  nella poesia “L’ultimo viaggio di Glenn” del 1999.
​Ma come è noto esistono due tipi di viaggiatori: quelli che viaggiano per avere conferme di cose che già sanno, e quelli che viaggiano per scoprire qual’cosa di nuovo.
​Con  “ La maschera ritratto” Maurizio Cucchi compie entrambi i viaggi. Se nella prima sezione  il protagonista parte per meglio definire un triste evento del suo passato a lui noto, nella seconda sezione del libro – intitolata “Pagine catanesi” – il viaggio lo porterà ad un’inaspettata scoperta.
​Ad affermarsi qui è la figura del nonno materno Alfredo Gandolfo: un uomo sconosciuto quasi inesistente per il protagonista che è spinto a questa ricerca dal desiderio espresso dalla madre Tina di avere qualche notizia del padre che tanti anni prima l’aveva abbandonata sparendo definitivamente.
​Alfredo Gandolfo appare sin dalle prime pagine come un giovane ufficiale di buona famiglia  brillante e spavaldo nella sua divisa kaki, che incontra la figlia una sola volta promettendogli di farla studiare in un collegio, di darle un avvenire agiato; promesse che inevitabilmente verranno disattese. Un personaggio dunque del tutto opposto a quello di Gino, l’amato padre a cui il protagonista vuole a tutti i costi assomigliare, pensando di averne ereditato i lineamenti e i tratti caratteriali
Eppure nel corso della ricerca scoprirà di assomigliare , quasi per una beffa del destino,  più al nonno che al padre e che l’idea che aveva di se stesso era in realtà fondata su un errore che da sempre influenza la sua vita. 
​ Noi, sembra dirci l’autore, siamo la somma di tanti pezzi che ereditiamo dai nostri predecessori. Qualche volta scopriamo un tratto della nostra immagine o della nostra personalità che ci lega profondamente ad una persona a noi lontana, magari ( come nel caso del protagonista) anche un po’ sgradita e ciò ci lascia sgomenti. Diventiamo simili a quelle maschere ritratto di cui parla Giuseppe Rovani nel suo libro “Cento anni”: maschere in uso nel settecento, modellate ad arte da pittori e plastificatori esperti per rendere al vivo le sembianze di chiunque si volesse. Tali maschere, utilizzate con ingegnosi stratagemmi da scaltri individui per sedurre con l’inganno donne inesperte crearono tanti e tali disordini da dover esserne vietata per legge la produzione e l’utilizzo.
​Ma in fondo tutto ciò non ha grande importanza. Ciò che conta non è tanto guardar dentro se stessi sprofondando in un io “enorme, divorante”, quanto piuttosto vivere il presente, l’essere qui adesso, cercando di entrare in armonia con l’universo che ci circonda. Per questo l’autore fa dire al protagonista: “ mi piace essere qui, mi piace dormire, leggere, mangiare, amare da cent’anni la stessa donna, guardare il mare, uscire  e vedere il mondo, mi piace esserci, vivere…”.
​Dopo tutto il destino di ogni uomo è di andarsene via “all’oscuro di tutto”, senza sapere fino in fondo chi si è veramente.
Scrive al riguardo Fernando Pessoa: “ Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un’unica interiore realtà che non è in nessuno ed è in tutti”.
​Con la “Maschera ritratto” Maurizio Cucchi torna sui suoi passi, riproponendo con una prosa compatta, energica, che lambisce costantemente la poesia i temi a lui più cari : il viaggio; l’esperienza abrasiva – “far fruttare anche il minimo gesto”- , che deriva dal contatto con la materia, con le cose che “si nutrono di noi”, da cui trarre informazioni, immagini, da cui assorbire vita; il tema dell’identità . Un operazione questa che assume carattere programmatico nelle parole del protagonista: “ E’ necessario oltrepassare i generi, o almeno: io sento il bisogno di farlo. La mia convinzione è semplice. La poesia può riassumere in sé il racconto, la riflessione, lo stacco lirico nella forza e nella verità della parola, nell’economia potente della parola. Troppo narrare gira su se stesso, eccede e annoia come un mare di parole espressivamente scariche..”
​In questo modo, Maurizio Cucchi, riesce a dare nuova voce a quella ricerca poetica che lo accompagna da quarant’anni.
 


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