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La memoria e lo sdegno – ” I quanti del suicidio” di Helle Busacca

Creato il 24 ottobre 2010 da Fabry2010

«Ed io non posso maledire morte/ se tu l’hai scelta/ e, pur dubbiosa, in lei soltanto guardo/ se mi ti renda in qualche modo. Tanto/ scialbo e infantile il mio sogno di allora, / poter partire sull’eterea nave/ che ci traesse sulle nebulose/ cercando…». Volge quasi un quarantennio da quando, nel 1972, Helle Busacca faceva stampare I quanti del suicidio presso una tipografia romana. Il ricorso all’autopubblicazione si legava alla strenua volontà di non finire nel «sottobosco editoriale» e di non svendere un’opera sentita come propria, dovuta ad un’impellente necessità di lasciar traccia. Come scrisse Murasaki nel Giappone di mille anni fa: «Qualche cosa della sua vita, o di quella che lo circonda, appare allo scrittore così importante, che non può sopportare di lasciarla cadere nell’oblio». Al di là dell’esperienza personale e storica da cui nasce, la poesia, affermava la Busacca, non è mai così soggettiva; anzi, quanto più appare tale, tanto più è «la sintesi di una inter-azione [...], la risultante necessaria, che non può essere se non quella, dell’incrociarsi di tutti i fili che compongono il nostro mondo»; nel contempo essa «esprime una ricerca e una denuncia» che «presuppone, sulla terra, coscienze umane».

La poesia è così un «atto di fede sociale» che rivela, agli occhi di chi ancora voglia essere umano, «le coordinate infinite che passano per un punto in quel determinato momento del tempo-spazio, e dell’inconscio collettivo, e in nessun altro»; incrocio cartesiano, quindi, tra l’asse del privato e quello sociale, in cui fiducia e sfiducia si intrecciano lungo il sottile crinale che separa il pudore dalla denuncia, il grembo della gestazione del sentimento dal parto fluviale della parola in cui questo si esprime.

Da un lato, questa donna irraggiungibile, altera nel suo dolore, ma di delicata umanità, protesse la sua intimità come un cristallo: nata a Sampiero-Patti nel 1915, si trasferì a Bergamo e poi a Milano, e insegnò in vari licei della penisola, da Varese a Pavia, da Milano a Napoli, Siena e Firenze. Dall’altro, accostatasi in un primo tempo all’Ermetismo, pubblicherà le sue rime petrose e lunghe, dense di anafore, inserti dotti e vertiginosi picchi lirici, in varie raccolte e riviste, ricevendo il premio Pesaro/1951 e Gabicce Mare/De Benedetti/1973, presieduto dallo stesso Carlo Bo. «Intimità irrelata del mistero larico e visione del mondo moderno nei suoi aspetti più controversi e contrastati», ha scritto Oreste Macrì a proposito di questa vibrante poetessa nostrana (che fu anche pittrice) cui Sibilla Aleramo dedicò un ritratto grafico. Montale nel 1956 la incastonò in una delle sue prose di Farfalla di Dinard, dal titolo «La busacca» ove, con la sua raffinata ironia, faceva di Helle un misterioso uccello, unico nella sua specie, che non si lascia predare, «un rapace più grosso del falco e meno dell’aquila provvisto di solide ali non tanto grandi da consentirgli di spiccare il    volo da terra…», un aliante o un aquilone, «un demone imprendibile, tardigrado e scaltro, coriaceo e a prova di pallettoni», sempre in fuga verso altri orizzonti.

Il crocevia, tragico come in ogni tradizione mediterranea che si rispetti, da cui scaturiva il passaggio dalle coordinate minime del personale a quelle del sociale, da un dolore privato all’impegno per l’umano, fu costituito dalla morte del fratello Aldo, ingegnere e scienziato di profilo internazionale, suicidatosi per imparità rispetto al calvario accademico e professionale, vittima della violenza della nostra società efficientista e niente affatto meritocratica, schiacciato «dalla macina che li spurga in sanguigna melma/ tutti, laureati e analfabeti». La morte dell’unico fratello un po’ figlio («che io mi sentivo sua madre/ come mi sento SUA FIGLIA ora», scriveva; avevano condiviso la perdita della madre e l’abbandono del padre) investe la coscienza di Helle come un atomo in cui il bombardamento esterno provoca un salto di elettroni da un orbitale all’altro. Nel giro di due mesi, nel luglio del ‘65 a Milano, nell’agosto del ’70 a Creta, si compone un canzoniere del dolore formato da ben 149 componimenti lunghi che calamitano la lettura in un viaggio di fascinosa e struggente bellezza; «Un libro di poesie», ha scritto Carlo Betocchi, «dal titolo che s’apre su una specie di inquietante abisso; la mole – lì per lì – è allarmante, ma i testi, una volta saggiati i primi, non permettono di cessare, travolgono… un libro di alta e sdegnata pietà».

Al di là della metafora scientifica, I quanti del suicidio sono un’immensa liturgia laica in cui dimensione mediterranea («per lui i tappeti/ chiari e le finestre piene ci cielo/ per lui sul terrazzo le azalee vive/ e i crochi e i voli») e cosmica («Sì, credo che scrivo un poema/ dopo undicimila anni forse è il momento/ di inviare un messaggio verso le stelle/…scrivo un poema io donna/ che scrive perché è stato assassinato un uomo») coesistono per il gioco di lucidità e partecipazione: lo sdegno che si distacca ed innalza su una realtà che bisogna pur indagare e dispiegare; la pietà che  sprofonda  appassionata e irosa.  Seppure i testi si collochino sotto numeri romani, in serie sacrale come i Canti di unaComedia postmoderna, le sezioni del libro sono denominate Quanti, da quelli dell’integrazione a quelli della rottura, dai quanti della desolazione… a quelli della discriminazione, del rifiuto e della visione: figure di una fenomenologia energetica in cui qualità del dire e quantità di pathos si equilibrano, fissando il negativo della vita che nell’esperienza della perdita si riavvolge e recupera. Ne deriva un libro documento e memoriale, una sindone laica che ricercando le tracce del fratello, forse di ogni residuale fratello veramente uomo, lo individua nella vittima sacrificale di un sistema violento, quello accademico come quello del lavoro, in cui la sopravvivenza si lega alla furbizia e al sopruso, dove gli ingenui che vorrebbero semplicemente dar frutto sono falciati come l’erba: «non si può essere buoni/ questo vocabolo da teatrino/ di sagrestia di paese/ la furia sola è che resta/ poter scardinare le porte/ di quelli che scialano fra i carrelli grevi».

Dal primo fino all’ultimo componimento, ambientato al lido di Mallia, rifugio degli hippies in una Creta invasa «dai soliti eserciti di borghesi automatici», Aldo diventa icona dell’uomo che si tramanda a chi l’ha smarrita. Tra quei ragazzi pacifici per cui prova simpatia e  nostalgia, Helle, novella Hölderlin, canta anticipatamente il ricordo mentre annunzia la scomparsa di molte specie viventi, tra cui quella dell’uomo: «Voi siederete lungo le rive, / giovani e adolescenti, di un mare vuoto / ne ascolterete la voce/ attenti, perché non ci sarà altro da sentire». E dopo averla     interrogata  su ogni   specie    scomparsa,  «aldo? com’era?», chiederanno. «Era l’Uomo. E l’Uomo era meraviglioso. / Quando lui c’era c’era anche Dio», risponderà la poetessa a coloro che, quasi senza avvedersene, avranno visto sparire i pesci dal mare e gli uccelli dal cielo e ne sentiranno notizia come si parla dei dinosauri e degli pterodattili.

La critica accolse il volume in modo entusiasta, cogliendovi la pregnanza della lezione  americana, da Pound a Eliot (Anceschi), ma anche la componente etica, come ben vide Carlo Bo che individuò nei versi «contestatari violenti, pieni di vivide immagini», di Helle Busacca la capacità di sollevare «i più vivi e reali problemi della vita odierna in tutta la loro pungente acutezza». Si auspica che qualche buon editore, a quindici anni dalla sua scomparsa avvenuta a Firenze nel 1996, abbia l’acutezza di rilanciare verso altri voli un’opera meritevole di essere riscoperta e conosciuta, specie nella sua terra d’origine, tante volte colpevolmente incapace di sdegno, e forse anche di pietà.

Gabriele Blundo Canto



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