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Gli elettori chiamati a deporre la scheda dentro la grande cesta di vimini sono 1007: 630 deputati, 315 senatori, 58 delegati regionali (tre per regione, ad esclusione della Valle d’Aosta, cui ne spetta uno soltanto), quattro senatori a vita (Emilio Colombo, Giulio Andreotti, Mario Monti e il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi). Nei primi tre scrutini è richiesta la maggioranza qualificata dei 2/3 degli elettori, pari a 671 voti; dal quarto scrutinio in poi è sufficiente la maggioranza assoluta (504 voti). Gli scenari prevedibili vanno dalla rapida elezione di un presidente di “garanzia”, un nominativo espressione della più ampia maggioranza possibile (Pd-Pdl-centristi e, possibilmente, qualche grillino), al presidente “di parte”, eletto con i voti del centrosinistra e il contributo di una frangia del M5S (sulla falsariga di quanto accaduto con Grasso al Senato).
Degli undici presidenti della Repubblica che si sono succeduti dal 1948 ad oggi, ho visto all’opera gli ultimi cinque: Giovanni Leone è infatti uno sbiadito ricordo in bianco e nero.
Sandro Pertini, il presidente partigiano, simpatico, iracondo, diretto: il primo capo dello Stato che dismette i panni di “notaio” della Costituzione e fa sentire alta la sua voce contro le inefficienze della politica (emblematica la vicenda del terremoto in Irpinia).
Francesco Cossiga, democristiano sui generis con qualche scheletro nell’armadio, che dopo cinque anni da burocrate diventa Externator e comincia a picconare quel sistema al quale era stato organico.
Oscar Luigi Scalfaro, eletto in uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana (la strage di Capaci) e protagonista di un settennato molto controverso, caratterizzato dall’aspro scontro con Silvio Berlusconi.
Carlo Azeglio Ciampi (con Pertini il più amato: è stato l’unico ad avere visitato tutte le province italiane), il presidente che ha ridato linfa al sentimento di unità nazionale e di italianità.
Giorgio Napolitano, accusato ora di eccessiva “distrazione” (promulgazione leggi ad personam), ora di esorbitante protagonismo (operazione che ha portato Mario Monti a Palazzo Chigi).
Per i prossimi sette anni, la mia preferenza va a una candidatura femminile. Credo che i tempi siano maturi per affidare a una donna la carica più alta del nostro ordinamento. Tra i nomi che circolano, Emma Bonino è il nominativo sul quale potrebbero convergere voti trasversali agli schieramenti politici. Radicale, paladina dei diritti delle donne e protagonista delle più importanti battaglie di civiltà della storia repubblicana, ha carisma ed esperienza, sia nazionale che internazionale: commissario europeo, ministro del governo italiano, vicepresidente del Senato. In seconda battuta, Laura Boldrini, fresca presidente della Camera, da oltre due decenni impegnata negli scenari più desolanti e tragici del pianeta, dal 1998 portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. Se invece dovesse sfumare la possibilità delle “larghe intese”, il partito democratico dovrebbe procedere a maggioranza. Dal quarto scrutinio tutto è possibile: anche una convergenza con il M5S su Romano Prodi, con il quale il Pd è parecchio in debito: due volte il professore bolognese ha condotto il centrosinistra alla vittoria, due volte è stato fatto fuori dai suoi. Il curriculum non si discute, mentre sul piano personale si tratterebbe di un risarcimento. Con buona pace di Berlusconi e delle sue minacce di espatrio: se il Cavaliere vuole andare, che vada pure.
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