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La migliore arte

Da Marcofre

Per quel che mi riguarda, la migliore arte ha dei punti di riferimento precisi nella vita reale.

 

Il 2 agosto del 1988 moriva Raymond Carver. Non ho intenzione di aggiungere molto altro, di scrivere cosa è stato, perché ciascuno se ne può fare un’idea leggendo i suoi racconti. Buona parte della sua produzione, come amo dire io, è stata dedicata alla celebrazione delle erbacce. Sì insomma: le persone che stanno ai margini della strada, mentre proprio lì accanto passa rombando il Sogno Americano.

Ammesso che sia ancora un sogno. Credo che siano pochi gli autori che siano riusciti a rendere tanto concreta la vita di una certa America, ma con un’onestà adamantina.

E a proposito della frase in apertura di post: non esiste artista (pittore, scultore, scrittore), che non abbia i piedi ben piantati nella vita reale. Per questo sono sempre perplesso quando certi lettori vorrebbero che lo scrittore fosse più “impegnato”.
Secondo me, lo è fin troppo, soprattutto se produce certa narrativa.

Chi scrive non “esce” dalla vita, semmai vi si cala come pochi hanno il coraggio di fare. E un comportamento del genere dovrebbe adottare anche il lettore, che invece si lamenta perché la storia è troppo seria. Carver era criticato perché nelle sue storie c’erano persone alle prese con il lavoro che non c’era, la bottiglia: insomma, dei poveracci in massima parte, che tiravano a campare.

Mi immagino un lettore che alza la mano, durante un incontro con lo scrittore (li avrà fatti anche Carver, vero?) e chiede:

 

“Scusi signor Carver, si può avere qualcosa di più leggero?”

 

Come se fossimo al bar.

A meno che non si viva in un attico nel Principato di Monaco, ho una notizia importante a questo proposito: la vita è una faccenda seria, e perciò anche le storie. E quando scrivo “seria” non intendo barbosa: ma che ama romperti le ossa. Ignorare questa verità, pretendere leggerezza, non eviterà di un solo secondo l’impatto. Meglio abituare la testa a questa realtà. Tutto quello che devia da questo concetto, lo fa per rendere l’individuo più debole, malleabile, e schiavo.

Perciò quando si chiede a un autore di essere impegnato, in realtà quella domanda dovrebbe rivolgerla il lettore a se stesso. Chi scrive lo è fin troppo. E il lettore ragionando in quella maniera, svela un profondo disprezzo per la parola, o quantomeno un’opinione vacua sulla sua capacità di intervenire nell’individuo, e trasformarlo. Siccome per lui la parola è puro segno su pagina, e basta, o chiede leggerezza, oppure che l’autore combini qualcosa di più tangibile, concreto. Qualcosa che possa essere schedato, etichettato, catalogato, e infine archiviato.

Chi ragiona in questo modo è merce, non persona.


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