di Giuseppe Dentice*
Anche dopo l’elezione di Abdel Fattah al-Sisi a Presidente della Repubblica nel maggio 2014, la transizione egiziana non può definirsi totalmente conclusa poiché a seguito delle destituzioni di Hosni Mubarak nel febbraio 2011 e di Mohamed Morsi nel luglio 2013 permane nel paese una rilevante serie di problemi. La sicurezza e il pericolo del terrorismo rappresentano sicuramente alcune delle maggiori criticità del periodo post-Primavere arabe.
I cambiamenti al vertice del 2011 e del 2013 hanno acuito in Egitto una recrudescenza terroristica che si pensava parzialmente risolta dopo gli innumerevoli arresti – oltre 3.000 – di militanti e sospetti jihadisti a seguito degli attentati di Luxor del 1997 e quelli nel Sinai meridionale (Sharm al-Shaik, Dahab, Taba, Ras al-Shaitan e Nuweiba) del triennio 2004-06. Attualmente la minaccia è localizzata su più fronti: coinvolge la penisola del Sinai nella sua interezza, il mainland egiziano (Il Cairo, il distretto della capitale e il delta del Nilo) e le province occidentali vicino al confine libico. Secondo le autorità egiziane, Ansar Bayt al-Maqdis (ABM) è al momento la principale minaccia alla sicurezza nazionale, nonché il gruppo responsabile della maggior parte degli attacchi lanciati negli ultimi mesi in tutto il paese.
ABM è un’organizzazione islamista radicale di matrice salafita che si richiama all’ideologia qaedista ma che ufficialmente non risulta legata ad Al-Qaeda attraverso un’affiliazione diretta come nel caso di AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula) o AQIM (Al-Qaeda in the Islamic Maghreb). Il gruppo presenta, comunque, collegamenti rilevanti con le sezioni siriane più o meno direttamente affiliate al nucleo duro di Al-Qaeda (come Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham) e ai movimenti islamisti attivi in Libia (in particolare con il Mohammed Jamal Network e Ansar al-Sharia Libya). Negli ultimi mesi, tuttavia, si è assistito all’emergere di nuove sigle jihadiste affiliate allo Stato Islamico/ISIS (come Jund al-Khilafah Kinana) e a un fenomeno di emulazione con alcune decapitazioni nel Sinai – è il caso dei quattro egiziani accusati di essere spie del Mossad il 28 agosto scorso: tutto ciò farebbe propendere per un avvicinamento di Ansar Bayt al-Maqdis all’organizzazione del califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
ABM è operativo nei territori centro-settentrionali del Sinai vicino al confine israeliano tra Rafah, Al-Arish e Sheikh Zuweid. Prima del 2013 le sue azioni erano fondate soprattutto sui rapimenti di soldati, sul lancio di razzi verso Israele e sugli attentati alle infrastrutture economiche – tra tutte l’Arab Gas Pipeline, il gasdotto sinaitico che rifornisce di gas naturale liquido la Giordania e che ha coperto fino all’aprile 2012 il 40% dei consumi domestici israeliani (1,7 miliardi di m³). Il golpe del luglio 2013 ha rappresentato uno spartiacque fondamentale nel modus operandi della cellula jihadista segnando un innalzamento del livello qualitativo degli attacchi: lo dimostrano gli attentati al quartier generale della Direzione sicurezza del sud Sinai ad At-Tur nell’ottobre 2013, l’abbattimento di un elicottero dell’esercito egiziano tramite sistema missilistico antiaereo MANPADS nel gennaio 2014 o l’attacco al bus di turisti coreani a Taba nel febbraio 2014. Nonostante siano in corso nuove campagne di counterterrorism – ben tre dal 2011 al 2013 – contro i miliziani di ABM e delle altre sigle jihadiste, i risultati sono ancora contenuti e le operazioni non hanno condotto a una reale messa in sicurezza della penisola.
Guardando al mainland egiziano, il cuneo di instabilità che si è sviluppato dalla fine del 2012 è il frutto delle tensioni interne derivanti dalla destituzione di Morsi e dalla repressione della Fratellanza Musulmana che ne è seguita da parte dei militari. Nell’escalation di violenze post-2013, ABM ha assunto un ruolo decisivo poiché è riuscita a coagulare attorno a sé le strategie dei gruppi minori (come Ajnad Misr, Ansar al-Sharia Egypt e Al-Qaeda in the Sinai Peninsula) in una struttura da organizzazione-ombrello; questa ha assunto il compito di attaccare sedi militari e istituzionali – quindi simboli del potere centrale – come il canale di Suez, il delta del Nilo, il Cairo e il suo distretto. Una dimostrazione di ciò è rappresentata dalle esplosioni che si sono verificate il 21 settembre scorso in diverse zone della capitale e nelle quali hanno perso la vita due ufficiali dell’esercito (tra cui il colonnello Mahmud Abu Serei, uno dei test chiave nel processo a carico di Morsi per l’evasione dal carcere di Tora nel 2011). Casi analoghi sono stati il fallito attacco al Cairo nei confronti del Ministro degli Interni Mohammed Ibrahim nel settembre 2012 o, sempre nella capitale, quelli invece andati a buon fine contro alti ufficiali della Sicurezza Nazionale (il Colonnello Mohammed Mabrouk nel novembre 2013 e il Generale Mohammed Said nel gennaio 2014). Anche nell’entroterra, dunque, si è assistito a un’evoluzione nella tipologia degli obiettivi.
I confini occidentali rappresentano attualmente una priorità per le autorità del Cairo, a causa dell’ampio flusso di forze radicali e di scontenti della Fratellanza Musulmana egiziana verso la Cirenaica che potrebbero decidere di sostenere la causa jihadista in Libia e in Egitto. Al fine di impedire tale scenario e di spezzare il numero crescente di attacchi di frontiera contro i militari egiziani – come quelli a Farafra e a Marsa Matrouh dell’estate scorsa – Al-Sisi ha deciso di offrire il proprio supporto al governo libico riunito a Tobruk inviando un’unità specializzata anti-terrorismo composta di addestratori e di consiglieri militari. Un’iniziativa che segue quanto avvenuto tra il 18 e il 23 agosto, quando aerei non identificati ma attribuiti a Egitto stesso e a Emirati Arabi Uniti avevano bombardato quartieri di Tripoli in mano alle milizie islamiste. A giustificare le azioni egiziane vi sarebbero, inoltre, i rapporti tra ABM e i gruppi terroristici libici già citati di Ansar al-Sharia Libya e Mohammed Jamal Network (MJN). In particolare quest’ultimo si è rivelato un prezioso alleato per ABM nelle sue iniziative armate nel Sinai e nel fallito attentato alle ambasciate occidentali del maggio 2013, nel distretto del Cairo di Nasr City. Secondo il Dipartimento di Stato americano, Jamal e la sua cellula sorta nel 2011 sono stati peraltro tra gli autori degli attacchi al consolato americano di Bengasi del settembre 2012, nel quale perse la vita l’Ambasciatore Chris Stevens.
A fronte degli sforzi profusi dal governo egiziano, il numero di cellule radicali continua a crescere, in particolare nel Sinai: un fenomeno sospinto soprattutto dal dissenso islamista nei confronti dell’establishment civile-militare. A ciò bisogna aggiungere che nonostante gli arresti e le uccisioni di miliziani e leader jihadisti – recentissima la notizia dell’uccisione da parte delle forze di sicurezza di Abu Osama al-Masry, leader di ABM – non migliora neanche la percezione della sicurezza complessiva nel paese. Un paradosso che si è manifestato in tutta la sua evidenza con la non-partecipazione attiva dell’Egitto nella coalizione arabo-occidentale contro l’ISIS, nel timore che una sua iniziativa militare possa incentivare una ritorsione da parte dei gruppi radicali e, allo stesso tempo, favorire un nuovo bacino di reclutamento dal quale attingere nella battaglia jihadista contro il governo centrale.
Se gli Stati Uniti spingono per un maggiore coinvolgimento dell’Egitto nel fronte anti-IS, come dimostra la visita dell’8 ottobre di una delegazione americana al Cairo, di converso al-Sisi si limita a una forma di “appoggio esterno” consapevole dei rischi di instabilità crescente che abbracciano tutto il Nord Africa e il Medio Oriente. Il timore principale è che il paese diventi un hub di primo livello per operazioni terroristiche da e verso i maggiori teatri di crisi regionali, ponendo dunque un serio problema alla sicurezza interna egiziana contestualmente a quella dell’area mediorientale.
* Questo articolo è apparso originariamente su Aspenia online, Rivista dell’Aspen Institute Italia il 16.10.2014.
Photo credits: AFP
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