Pubblicato da Andrea Sartori su gennaio 9, 2012
Marco Travaglio, il giorno dopo i funerali, ha ripercorso sul Fatto Quotidiano le tappe dell’ascesa e delle cadute (plurali) di don Verzè, dagli affari immobiliari con Silvio Berlusconi agli albori di Milano 2, alle condanne per tangenti e abusi edilizi – in parte annullate dalla santa prescrizione –, dalle amicizie politiche come quella con l’immancabile Bettino Craxi – a lungo terminus ad quem irrinunciabile per qualunque oliaggio della macchina amministrativa pubblica –, alle speculazioni rapinose su due opere d’arte, finendo con l’abbraccio solidale elargito al pragmatismo illuminato dalla fede di Roberto Formigoni, ras indiscusso della Regione Lombardia e delle sue opere di bene nell’era berlusconiana.
E siamo all’oggi, con i suoi “sorprendenti” buchi di bilancio. Don Verzè, in mezzo a tanto rigoglio di idee e progetti, era solito dire che i soldi non sono mai il problema: chissà perché, allora, sono spesso in cima ai pensieri e alle preoccupazioni delle persone comuni, non appena si propongono di fare qualcosa, non solo di pensarla. L’imprenditore edile Piero Zammarchi, proprio il giorno dei funerali, l’ha detto, in uno di quei momenti di verità che vengono spontanei quando si è innanzi alle cose ultime, come la morte di una persona: bastava distribuire qualche tangente, anche a quel Giuseppe Rotelli – oggi candidato a riscattare il San Raffale –, dal quale Zammarchi è stato peraltro prontamente querelato.
Su Repubblica, Gad Lerner ha invece esplicitato il carattere oscuro, misterioso e innominabile, della storia del San Raffaele: «La Milano dei Michele Sindona e dei Roberto Calvi non è certo nuova a questo genere di misteri». Già, il mistero, questo tenebroso compagno dell’avventura italiana, che fa capolino quando i nodi vengono al pettine.
In attesa che la magistratura faccia chiarezza, Berlusconi e Formigoni hanno intanto disertato le esequie di don Verzè, sentendo quella sulfurea puzza di bruciato, che poco ha a che fare con le stimmate della santità. Più coraggioso il barbuto Cacciari, uomo d’una sinistra al di là della speranza e della disperazione, e padre della facoltà di filosofia del San Raffaele, asilo delle migliori intelligenze teoretiche italiane, specialmente veneziane, ma non solo (Emanuele Severino, Andrea Tagliapietra, Massimo Donà, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, il giovane Diego Fusaro e altri). L’ex sindaco di Venezia era presente, e ha così reso tangibile uno dei più lancinanti paradossi, che la vicenda di don Verzè ha portato alla ribalta. È ammissibile che l’eccellenza italiana, per conservarsi in vita, debba vendere l’anima all’affarismo, al denaro generato non dal lavoro ma dalla spregiudicatezza, all’intreccio inquietante di business, corruzione e bene pubblico, clientelismo? Ciò che stringe il cuore, a ridosso dei funerali di don Verzè, è proprio l’immagine di un Massimo Cacciari che partecipa alle esequie accanto a Renato Pozzetto e ad Al Bano. Il pensiero che doveva essere critico, fortificato dalla lezione di negatività impartita da Schopenhauer e Nietzsche, disilluso e nemico d’ogni ingenuità al punto da dichiararsi postumo a se stesso, tanto profetico da riaccendersi di speranza in nome della Fede in un Inizio sganciato dalla storia e dalla sua processualità mondana, ebbene questo pensiero – presuntivamente consapevole della crisi e dell’abisso – era stretto tra il pecoreccio degli anni ’80 e la canzonetta che pertugia nell’Amplifon delle nonne. È il destino che ci attende tutti, si dirà, l’adagio sic transit gloria mundi vale per ognuno e nessuno ne può essere immune. Senz’altro è vero. Tuttavia, perché Cacciari, innanzi al conclamato abisso, non di fede, ma di fraudolenza, ha insistito a dire al Tg3 che don Verzè è stato un uomo dalla visione straordinaria, che pensava in grande? Non cortocircuitava questa affermazione alle sue stesse orecchie, nell’istante in cui la pronunciava? Con che sguardo d’ora in poi i milanesi guarderanno l’angelo (nient’affatto necessario) sulla cupola del San Raffaele? Per carità, non ci venga a parlare, Cacciari, della hybris che accompagna il fare. Qui non è questione d’essere prometeici, ma impuniti o meno. Qui non si tratta di tirare in ballo il volontarismo prassistico del Faust, e di dedicargli una bella lezione nei pressi del residence Olgettina, ma di seguire d’ora in poi la lotta tra il perdurante mistero italiano e l’accertamento della verità giudiziaria. Con onestà intellettuale e con buona pace di chi, a suo tempo, riponeva fiducia in una sinistra de-ideologizzata, colta, bibliografica, eppure capace di “sporcarsi le mani”, e adesso deve ammettere che la barba dei suoi (falsi) profeti era anch’essa, più che sporca, tinta.