La musa malata
Mia povera musa, ahimè, che cos'hai stamattina?
Nei vuoti tuoi occhi si affollano le visioni notturne
e vedo riflessi sulla tua pelle uno dopo l'altro
la follia e l'orrore, freddi e taciturni.
Il verdastro succubo e il diavoletto rosa
hanno versato la paura e l'amore dalle urne?
L'incubo, col pugno dispotico e malvagio,
ti ha annegata in un fiabesco Minturno?
Voglio che il tuo seno della salute emani
l'odore e sia dimora di forti pensieri
e che il tuo sangue cristiano scorra in armoniche onde,
come i suoni di sillabe antiche,
dove a turno regnano il padre del canto,
Febo, e il grande Pan, signore delle messi.
Incluso ne I fiori del male (1857), il testo offre al lettore la descrizione di una musa sospesa fra l'antico e il moderno: in essa è vivido tanto il lampo delle disarmanti paure dell'uomo ottocentesco quanto l'armonia mitica, il primo ossessiva presenza, la seconda compianta perdita. Il poeta, sconfortato, combattuto e soverchiato dalla malinconia esistenziale che annega l'ispirazione (v. 8), cerca disperatamente di aggrapparsi al ricordo dei profumi della sua dea per tornare in sé e dedicarsi ai versi.
Uno straordinario gioco di sensi e immagini accompagna questo inseguimento dell'ispirazione: l'odore delle parole (vv. 9-10), le onde del canto associate al flusso del sangue (v. 11), le armonie come sede stessa delle divinità che le ispirano (vv. 12-14). E, su tutto, il meraviglioso gioco metapoetico: mentre l'autore evoca un'ispirazione inafferrabile, ci sta regalando un piccolo gioiello lirico.
F. Goya, Ritratto della Marchesa di Santa Cruz come Euterpe (1805)
C.M.