Fino al XIX secolo la musica ha vissuto una vita separata rispetto alle altre arti. Tale condizione si fa risalire ai tempi della Grecia antica dove la musica era vista per lo più come pratica manuale, estremamente tecnica, dotata di scarso valore artistico e intellettuale. Bisogna infatti riconoscere che l’esecutore di musica, ora come allora, si differenzia dalle altre tipologie di interpreti: a lui è richiesta un’elevata competenza necessaria a far “rivivere” nell’esecuzione la composizione e il pensiero del compositore condividendoli col pubblico. Da tale necessaria specializzazione del musicista deriva l’antica concezione della musica intesa, più che come arte, come mestiere.
Un esempio della scarsa attenzione riservata nel mondo antico al valore estetico della musica è dato dal fatto che, nella Grecia dell’antichità classica, le osservazioni più significative sulla musica sono contenute nei testi dei grandi filosofi – Platone e Aristotele in testa – che affrontavano l’argomento esclusivamente dal punto di vista politico. La musica, infatti, interessava al filosofo solo in base al suo valore (o disvalore) etico, se cioè avesse una qualche valenza educativa per la comunità e se quindi potesse trovare spazio in una società ideale.
Così come la marginalità artistica e sociale del musicista persisterà fino a ‘800 inoltrato, anche la discussione in merito all’utilità della musica avrà una storia lunga e travagliata. Esistono infatti due visioni che fanno da “estremi” a numerose teorie: da un lato quella che considera la musica in chiave etica, secondo cui essa incide (in positivo o in negativo) su sentimenti e comportamenti; dall’altro la lettura estetica che, invece, esclude ogni valore conoscitivo o educativo, ponendo l’attenzione solo sulle emozioni che la musica suscita nell’ascoltatore.
Riferimenti bibliografici
- E. Fubini, Estetica della musica, il Mulino, Bologna 1993
- T.W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino 2002
da “Il Pendolo” del 9 Marzo 2010