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La notte in cui ci siamo scoperti meno tifosi (io e ilaria)
Creato il 21 maggio 2012 da MarioplaninoIO – La notte in cui mi sono scoperto meno tifoso era cominciata bene: amici indivanati, pappatoria pronta, bimbi autorizzati a distruggere il resto della magione ma alla larga dalla tv. Ché c’era “la” finale. E se virgoletto “la” è perché intendo “l’unica finale” del Napoli, non “la grande finale” del Napoli. E non è proprio la stessa cosa. Di questa mia intima teoria m’ero dovuto vergognare già nei giorni addietro, perché l’atarassia mal s’addiceva alla volata ad un evento paranormale del terzo tipo: il primo tipo, lo scudetto, il Napoli l’aveva snobbato per inseguire le vane glorie del secondo tipo, la Champions. E paranormale pure perché non ci trovo niente di normale, io, nell’approcciarsi alla Coppa Italia come al Mondiale e nel festeggiare, poi, la vittoria come se non ci fosse un domani. ILARIA – La notte in cui mi sono scoperta meno tifosa era cominciata bene: puntuali davanti alla tv nonostante il weekend passato al mare. Valigie vuote, tutto in ordine, si poteva stare a impazzire sul divano nella battaglia per un trofeo. Eppure mi alzavo di continuo, addirittura lavavo i bambini durante il primo tempo, perdendomi dieci minuti di partita. Ché non riuscivo a considerare come un trofeo ma solo come una coppetta, riabilitata da qualche anno dall’accesso diretto all’Europa minore. Di questo mio pensiero mi ero dovuta vergognare già nei giorni addietro, perché non provavo neppure un fremito al pensiero del 20 maggio, anzi, questa data mi era anche venuta un po’ a noia, sembrando il mondo doversi fermare proprio quella domenica. Insomma, era tutto diverso dal solito, a partire dallo stato d’animo: al fischio di inizio pensai solo “stasera è diverso perché assisto, non gioco”.IO - Ecco qua: mentre lo scrivo me ne vergogno, quasi in modalità psicoterapeutica. Che qualcuno mi salvi da questo nulla, per carità. La mia maschera è caduta miseramente mentre l’euforia generale montava al gol di Cavani, mentre mi grandinavano addosso da Twitter le gioie “virtuali” della feroce realtà: stavamo vincendo un trofeo. Ho avvertito la stessa sensazione di nulla, come se, dal momento che si trattava di un trofeo, nella mestizia di una attesa durata 25 anni, allora l’etichetta imponeva d’arraparsi come un adolescente davanti alla sua prima volta, e io semplicemente non ce la facevo. ILARIA – Vorrei stendermi sul lettino di uno psicologo. Parlare del dolore per aver perso una Champions, di quel dolore che ho ricacciato dentro e che ieri è esploso di prepotenza. Perché questo è: io guardavo la finale di Coppa Italia e pensavo a Drogba che il giorno prima aveva alzato la Coppa dei Campioni. E provavo un’invidia folle, maledetta. E poi c’è l’aria asfittica, quella che si respira oggi. L’ha ufficializzata De Laurentiis: la prima vittoria della rinascita. Prima niente, è il passato, roba vecchia, emozioni smontate dalla storia. Cioè, io non so più chi sono: l’ho vissuto tutto quello che c’è stato prima, oppure no? Tutti respirano e io soffoco.IO – Ecco come mi sento, oggi. Le ambizioni sono il sale dello sport, la misura delle cose impreziosisce l’esaltazione dei risultati. Non puoi trattare la Coppa Italia come la Champions, non è sano. Ma forse sono io a non essere sano. Non è sano, da parte mia, covare ancora risentimento per le occasioni sfumate, per quell’eliminazione buttata col Chelsea, per quel terzo posto che ci hanno regalato mille volte e che mille volte noi abbiamo girato ad altri. Ecco, il terzo posto l’avrei festeggiato di più, perché avrebbe significato un futuro prossimo di emozioni, altre notti da grandi del pallone, e non una “coppetta” consolatoria che ci introduce all’Europa minore, l’anno prossimo.ILARIA – E quando la città intera, sull’1-0, aveva già cominciato a fare fuoco, io ero lì, imbambolata nel minimo sindacale della goduria: manco stessimo battendo un Chievo nel mezzo della stagione, contenti sì, ma insomma… Al raddoppio di Hamsik, mentre il Martire prendeva a calci il pallone in salotto dalla felicità, mentre persino i bambini si univano a noi nelle loro lacrimevoli proteste per la troppa confusione, ero già in un’altra dimensione: un posto brutto, orribile, in cui reputi tutto esagerato, fuori luogo, e al contempo ti senti tu fuori luogo, decontestualizzata, colpevole di essere tifosa ma non abbastanza tifosa, magari nemmeno tifosa per davvero. IO – Affacciarmi al balcone e guardare con condiscendenza quei corpi spogliati nei caroselli notturni, ripetendomi: è la Coppa Italia guagliù, è solo la Coppa Italia e cogliendo l’immensità di tutto quel vuoto, perché a pensarla così ero solo io. Abbiamo battuto la Juve sì, ma quella già satolla di scudetto. Contento più per l’espulsione di Quagliarella (chiusura del cerchio, afammoc) che per tutto il resto. E un po’ triste, nella felicità generale, per l’addio di LavezziILARIA – Mio marito mi ha detto che sembravo un’ameba. Contenta più per la fine dell’attesa del mondo intero per questa domenica che per tutto il resto. E un po’ triste, nella felicità generale, perché commossa dalle lacrime di Lavezzi. Marco aveva gli occhi lucidi, che non ha avuto per la Champions, io, invece, che quando pareggiammo contro il Manchester mi inginocchiai piangendo in salotto, me li sentivo riarsi, al punto da pensare di metterci dentro un paio di lacrime artificiali.VICINI E LONTANI – Sentirci rinfacciare una sobrietà di cui i napoletani devono essere sprovvisti per definizione ci fa male. Anche se vuol dire essere esclusi da un’isteria conformista, quella delle feste tutte uguali: e i clacson fino all’alba, e i tuffi nelle fontane, e il traffico bloccato, e i fuochi d’artificio, e il pullman scoperto. Come il Barcellona. Ma anche come il Torino che torna in A. Tutti uguali. E tutti ubriachi di gioia, tutti. E noi no. Scoprirci l’altra faccia della festa. Che vive le felicità per gradazioni, che non riesce a godere per il poco come se fosse il tutto. Forse, semplicemente, siamo meno tifosi. Stamattina, per strada, sbadigliavano tutti. Noi eravamo sveglissimi. Una solitudine rumorosissima, fatta di sogni presi a calci nel sedere, di sorrisi posticci. Praticamente, un incubo.
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