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Doveva finire per Settembre la guerra in Libia e per Settembre finirà. L'imperativo era dato dall'impossibilità di sostenere finanziariamente lo sforzo bellico da parte delle potenze impegnate, come esplicitamente ammesso dalle autorità britanniche e pare che l'ultimo sforzo abbia avuto l'esito tanto atteso: Gheddafi è sconfitto e in fuga, anche se l'ultima spallata, quella decisiva non è arrivata dalla parte che tutti si aspettavano, soprattutto francesi ed inglesi, i fautori principali della cacciata del Rais libico.
Ad attaccare Tripoli e a scacciare dalla capitale il colonnello e la sua numerosa prole non sono stati infatti i ribelli della cirenaica, che partiti da Bengasi hanno avuto sempre grosse difficoltà nel vincere la resistenza delle truppe lealiste (non era la prima volta che Bengasi si rivoltava, sempre nell'indifferenza di tutti), ma le tribù berbere delle montagne ad ovest del paese, che con un assalto inaspettato hanno rotto l'equilibrio in atto sul terreno.
Per la verità i segnali di un cedimento del regime c'erano tutti, a cominciare dal passaggio tra i rivoltosi di alcuni personaggi della politica libica una volta vicini a Gheddafi, come quello dell'ex primo ministro, nonchè ex compagno di scuola, Abdessalam Jalloud, ad indicare che tra le stesse forze tribali che avevano da sempre appoggiato Gheddafi si è infine fattatta strada la volontà di terminare il coflitto e di sedersi al tavolo per trattare un nuovo equilibrio di potere tra le componenti sociali ed etniche del paese nord africano.
Perché la guerra in Libia non è mai stata una rivoluzione popolare contro il tiranno. Gheddafi è stato senz'altro un tiranno, almeno per gli standard occidentali, ma di sicuro non ha affamato il suo popolo e che non è stato questi a sollevarsi in massa per spodestarlo. A volere la caduta di Gheddafi sono stati i maggiorenti delle varie componenti tribali della Libia, uno stato inventato dall'Italia Giolittiana negli anni 20' del secolo scorso accorpando tre diverse provincie del nord Africa, allora sotto il controllo ottomano.
Il motivo è la ripartizione delle ingenti risorse derivanti dall'esportazione del petrolio e del gas libico, che evidentemente, su suggerimento delle potenze esterne, qualcuno ha ritenuto troppo sbilanciato a favore delle tribù beduine sostenitrici del colonnello.
Ora bisogna soltanto aspettare ed attendere di vedere quale sarà l'aspetto della nuova Libia. Personalmente non ritengo che apparirà molto diversa da quella che conosciamo oggi, anche se la mancanza di un catalizzatore così potente come la figura del colonnello Gheddafi potrebbe condurre a lunghe lotte di potere tra le varie fazioni, prima di ritrovare un equilibrio stabile.
Importante saranno pure le alleanze e le manovre dei vari Stati interessati al petrolio libico e non solo di quelle che hanno sostenuto i rivoltosi, che russi e cinesi non staranno certo ad osservare mentre le varie multinazionali del petrolio pianteranno le loro bandierine sulle sabbie del deserto.
Peccato che proprio in questo momento il governo italiano appaia così debole e diviso, perché mai come in questo momento occorrerebbe un esecutivo forte ed autorevole per appoggiare le iniziative dell'Eni e delle altre industrie nazionali attive in Libia, nel nome di un principio degli interessi nazionali da proteggere che solo da noi è un tabù da non nominare.
Ma è tutto il ceto politico nazionale a non essere all'altezza e ad avere il coraggio di affermare con chiarezza quello che George W Bush affermò nettamente anni fa la "non negoziabilità del livello di vita dei cittadini statunitensi", un 'affermazione che destò qualche scandalo negli ambienti dei sepolcri imbiancati nostrani, quando essa appare un principio elementare per chi i cittadini statunitensi li governa.
Occorrerebbe che anche i politici italiani pensassero soprattutto al livello di vita dei loro concittadini, ma spesso sembrano interessate ad altre cose, soprattutto agli interessi personali, anche se sono magari coperti da richiami ad alti principi.
In questo frangenti bisogna solo sperare che siano i funzionari dell'Eni a dimostrare ancora una volta di essere in grado di difendere gli interessi della loro azienda e quelli dello Stato alla quale appartiene, confermando ancora una volta il detto che è la società del cane a sei zampe il vero ministero degli esteri italiano.
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