Secondo quanto riportato dal Financial Times, il presidente Barack Obama, nel suo recente viaggio in Costa Rica, avrebbe affermato la sua intenzione di approvare l’esportazione di gas naturale al di fuori dei confini statunitensi.
Secondo la Casa Bianca, lo “shale gas”, di cui il sottosuolo americano sarebbe ricchissimo, potrebbe essere utile a ridurre i costi dell’energia sia all’interno dell’emisfero occidentale sia dell’intero Centro America.
A giudizio di Obama, gli Usa potrebbero divenire esportatori netti di gas liquefatto già entro il 2020, raggiungendo quindi la piena autonomia energetica.
L’uso di tecniche estrattive nuove, come il fracking, l’immissione di enormi quantità d’acqua nelle profondità della superficie terrestre, ha reso disponibili, anche negli Usa, consistenti quantità di gas naturale che, liquefatto, può essere stoccato in grandi depositi e poi esportato laddove serve di più.
Fonti del Wall Street Journal, hanno poi messo in luce che, già nel 2010, gli Stati Uniti avrebbero superato la Russia di Vladimir Putin e della Gazprom come maggiore produttore mondiale di gas naturale.
La disponibilità di enormi quantità di combustibile potrebbe essere utile non solo al consolidamento della ripresa economica americana, ma potrebbe fornire agli Usa un nuovo strumento per espandere la propria influenza geopolitica.
Come ha infatti notato Tom Donilon, consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, in un discorso tenuto a New York a fine aprile e poco pubblicizzato dai media, la nuova ricchezza energetica potrebbe permettere agli Usa “una maggiore capacità di implementare gli obiettivi di sicurezza internazionale”.
Non solo, la maggiore produzione di gas americana e globale potrebbe essere funzionale “per spezzare la distruttiva spirale che ha fatto salire i prezzi del petrolio, diminuendo quindi la forza e il controllo del mercato dei tradizionali produttori dominanti”.
A parte le evidenti implicazioni riguardo una possibile concorrenza americana sul mercato energetico con soggetti di prima grandezza come Russia, Iran o Arabia Saudita che, grazie alle loro riserve, hanno accresciuto a dismisura il loro peso sul palcoscenico mondiale, qui preme sottolineare le conseguenze che l’uso della leva energetica potrebbe avere anche sullo scacchiere latinoamericano.
Nelle sue discussioni con i leader del Centro America, in Costa Rica, Obama avrebbe posto molta enfasi sulla necessità di favorire gli scambi commerciali con questa area, in particolare attraverso la esportazione del surplus statunitense di gas naturale. I
n tal modo sarebbe possibile ridurre progressivamente i costi dell’energia, creando le condizioni per un sostenuto sviluppo economico di tali paesi.
In effetti, come ha scritto lo stesso Obama in un editoriale sul The Miami Herald, qualche giorno dopo il ritorno dal Costa Rica, più del 40% delle esportazioni statunitensi trova sbocco nei mercati di Messico, America Centrale e del Sud.
Di conseguenza, i minori costi degli approvvigionamenti energetici potrebbero essere un volano importante per le economie di questi stati, con la creazione di posti di lavoro e un miglioramento generale delle condizioni di vita, e, conseguenza non secondaria, portare giovamento anche al sistema produttivo statunitense.
In parallelo con queste motivazioni di natura economica gli Usa potrebbero perseguire anche altri obiettivi, di natura più specificamente geopolitica.
Ad esempio, sfruttare la fame di energia a buon mercato di questi paesi potrebbe permettere a Washington di recuperare un maggior controllo e influenza su quelle nazioni che il segretario di Stato John Kerry, in una recente audizione alla commissione esteri della Camera, ha definito “il cortile di casa” degli Stati Uniti.
Una espressione infelice indice tuttavia di una profonda insofferenza di larga parte dell’establishment statunitense verso paesi come Venezuela, Bolivia, Ecuador o Argentina che con la leadership di uomini come il defunto Hugo Chavez o l’indio Evo Morales hanno saputo tenere testa ai tentativi dell’amministrazione di George W. Bush di riaffermare il tradizionale dominio statunitense sull’America Latina.
Gli approvvigionamenti di gas naturale a buon mercato potrebbero essere utili a riportare sotto la sfera di influenza di Washington nazioni centroamericane piccole, ma con una posizione geografica importante.
Non solo, questi potrebbero essere uno strumento essenziale per spezzare quella solidarietà latinoamericana che la oil diplomacy, praticata per anni dal Venezuela di Chavez, con la fornitura di petrolio a prezzi di favore a molti paesi dell’area, aveva permesso di consolidare.
Il gas naturale potrebbe quindi permettere all’amministrazione Obama di riuscire laddove George Bush non era riuscito: introdurre un cuneo rilevante nella crescente autonomia sudamericana dalla secolare dipendenza da Washington e permettere al gigante del nord di riacquistare peso e voce in capitolo nelle vicende latinoamericane.
Tanto più che laddove il gas naturale è già presente in grandi quantità potenziali, come in Brasile e Argentina, le tecnologie statunitensi di estrazione che si basano sul fracking sarebbero essenziali per portarlo alla superficie e per permettere a Brasilia e Buenos Aires di esportarlo.
Non solo, se Washington riuscirà a ridare sufficiente spessore alla sua influenza in America Latina, riuscirà anche ad arginare la crescente presenza della Cina nella regione, dettata dalla sempre più pressante fame di energia del sistema produttivo di Pechino.
La prossima visita in Brasile, Colombia e Trinidad e Tobago del vice presidente Joe Biden, prevista per fine maggio, vorrebbe dare continuità alle proposte lanciate da Obama nel suo recente tour sudamericano.
Una politica in tutto e per tutto simile a quella già praticata da George Bush riguardo l’America Latina, una strategia fondata sul vecchio brocardo latino del divide et impera, con risultati probabilmente migliori.