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La pagina della Cover Writer: Io e Te di Niccolò Ammaniti

Creato il 28 ottobre 2012 da Lundici @lundici_it
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io_e_te_copertina_del_libro_Questo week-end è uscito il film di Bertolucci “Io e te”, tratto dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti. Perché bisogna andare a vedere un film anche se si è già letto il libro e se ne conosce, quindi, la fine?

Il libro stesso ci dà la risposta: “Mi faceva impazzire, quando vedevo un film, che mamma e papà stessero sempre a discutere della fine, come se la storia fosse tutta lì e il resto non contasse nulla”.

Ecco cosa sono i racconti di Ammaniti. Persone che sembrano qualsiasi che vengono narrate attraverso eventi normali in superficie, ma più speso inattesi e terribili. Ammaniti scrive storie che sono come la vita, piene di niente e di sorprese, di vuoti e di paradossi, di tragedie e di situazioni buffe. I suoi protagonisti, spesso ragazzi, ci mostrano mondi interiori inaccessibili e devastanti e sono capaci di trasformare la propria immaginazione, la propria vita intima, i propri sentimenti, in azioni visibili sconcertanti, dolorose e spesso ridicole. Nonostante le loro scelte anche opinabili, senti di poterti affezionare senza giudicare. Ogni volta la fine, in genere tragica, è una delle tante cose che succedono. Leggere i suoi libri è come vedere un film e fino ad ora le due trascrizioni cinematografiche ad opera di Salvatores di “Io non ho paura” e “Come Dio comanda”, mi hanno convinto, anche se forse il regista tradisce lo spirito non sempre edificante di Ammaniti. Salvatores sembra sempre dirci che in fondo non ci sono persone così terribili, tutti hanno le loro ragioni e che è possibile vedere qualcosa di positivo in qualsiasi essere umano. Non è quello che provi leggendo i libri di Ammaniti. Anzi al contrario in ogni storia ci fa capire che dentro a chiunque, noi compresi, a prescindere dalla giovane età o dalle intenzioni, convivono bene e male. E che, volenti o nolenti, è più normale che il male prenda il sopravvento, non solo nelle vite dei “cattivi”.

Ora, non so se andrò a vedere il film di Bertolucci, perché è un regista che riesce a trasformare ogni storia, anche la più scabrosa, dolente, violenta o rabbiosa in qualcosa di estremamente raffinato ed elegante. Non so se ho voglia di “vedere” i personaggi di “Io e te” rappresentati in questa maniera. Forse vorrò conservare l’idea che mi son fatta di Lorenzo leggendo la storia che lui stesso ci narra in prima persona, continuando a dargli il volto di qualche ragazzino schivo e non certo elegante, che a stento ricordo di aver conosciuto e che non ho idea di dove sia andato a finire. In realtà per me Lorenzo è Niccolò, nella sua adolescenza romana, interiormente turbolenta.

Ammaniti sulla neve

Ammaniti, non più adolescente, sulla neve.

“Io e Te” di Niccolò Ammaniti Einaudi Stile Libero, 2010.

… Ho iniziato a parlare a tre anni e chiacchierare non è mai stato il mio forte. Se un estraneo mi rivolgeva la parola rispondevo sì, no, non so. E se insisteva rispondevo quello che voleva sentirsi dire. Le cose una volta pensate, che bisogno c’è di dirle? “Lorenzo tu sei come le piante grasse, cresci senza disturbare, ti basta un goccio d’acqua e un po’ di luce”,  mi diceva una vecchia tata di Caserta.

Piano piano ho capito come comportarmi a scuola. Mi dovevo tenere in disparte, ma non troppo, sennò mi notavano. Mi confondevano come una sardina in un banco di sardine. Mi mimetizzavo come un insetto stecco fra i rami secchi. E ho imparato a controllare la rabbia. Ho scoperto di avere un serbatoio nello stomaco, e quando si riempiva lo svuotavo attraverso i piedi e la rabbia finiva a terra e penetrava nelle viscere del mondo e si consumava nel fuoco eterno.

Perché dovevo andare a scuola? Perché il mondo funziona così? Nasci, vai a scuola, lavori e muori. Chi aveva deciso che quello era davvero il modo giusto? Non si poteva vivere diversamente? … Perché non mi lasciavano in pace? Perché dovevo essere uguale agli altri? Perché non potevo vivere per conto mio in una foresta canadese?

Il solco che mi divideva dagli altri si faceva più profondo. Da solo ero felice, con gli altri dovevo recitare.

Una storia, in effetti, ce l’avevo. Me l’ero inventata una mattina a scuola. Ma le mie storie le tenevo per me, perché se le raccontavo si sciupavano come fiori di campo tagliati e non mi piaceva.

- E poi?

- Come e poi?

- Come finisce?

Era finita. Basta. A me questa fine sembrava buona. E poi, io odiavo le fini. Nelle fini le cose si devono sempre, nel bene o nel male, mettere a posto. A me piaceva raccontare di scontri tra alieni e terrestri senza ragione, di viaggi spaziali alla ricerca del nulla. E mi piacevano gli animali selvatici che vivevano senza un perché, senza saper morire. Mi faceva impazzire, quando vedevo un film, che mamma e papà stessero sempre a discutere della fine, come se la storia fosse tutta lì e il resto non contasse nulla. E allora, nella vita vera, anche lì, solo la fine è importante? La vita di nonna Laura non contava nulla e solo la sua morte in quella brutta clinica era importante?


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