Il nostro gattino, come tutti i cuccioli, è un gran giocherellone. Basta poco per farlo divertire. Gli arrotolo una busta di carta da lettere usata (meglio se con del cellophane) e gliela lancio
Shiwon (questo il nome coreano che mia figlia ha voluto dare al gattino) le si avventa felice e la fa rotolare, afferrandola con le zampette per poi spingerla ancora in avanti per afferrarla di nuovo; è come se lui fingesse che si tratta di un essere animato da catturare.
Ho soprannominato questo gioco (che ho iniziato ad eseguire invero con una palla da tennis) il gioco della palletta. E’ sufficiente così che io dica “la palletta” e Shiwon si mette sul chi vive, pronto a scattare. A volte si nasconde dietro un mobile, aspettando il lancio della palletta.
Quando si raggomitola al mio fianco gli accarezzo la testina; socchiude gli occhi, ma prima mi guarda intensamente, come se volesse parlarmi.
Allora mi chiedo che cosa si celi in quella testolina morbida; quali pensieri, quali ricordi, quali sinapsi guidino i suoi scatti, il suo moto, le sue azioni.
Chissà quanti millenni ha attraversato il suo cervello, in un lungo e complesso processo evolutivo, per giungere sino a noi in questa condizione domestica.
Chissà cosa serba il suo DNA di felino. Forse nei suoi cromosomi c’è ancora l’istinto del predatore selvaggio, abituato a vivere all’aperto e a procacciarsi il cibo tra mille pericoli.
Anche lui fa parte del gran mistero che avvolge le nostre esistenze.