Il decimo racconto breve: La panchina
Buona lettura.
Nel suo nome e cognome c’era una nota antica, un sapore un po’ da notte dei tempi: Bastiano Saetone. Più di una volta, durante gli anni, persino di recente, aveva dovuto spiegare che il cognome era giusto così, non c’era bisogno di aggiungere una “t”. Né era necessario precedere il nome con il “Se”.
Quando era nato, circa 91 anni prima, c’era stato l’errore di un impiegato all’anagrafe del comune, oltre alla disattenzione di suo padre: queste due cose assieme, avevano prodotto quel pasticcio. Adesso attorno a lui non c’era più nessuno; dopo aver seppellito la moglie, il figlio, restavano una nuora e dei nipoti distanti, che al giorno d’oggi le distanze non esistono, solo tanta pigrizia. E viveva da un paio d’anni all’ospizio del Santuario.
Il mese di maggio lo spingeva verso le due del pomeriggio a uscire, aiutato da un bastone; strascicava i corti piedi verso una delle panchine presenti sulla piazza, gambe lunghe come lunghe erano le braccia, le mani, e si sedeva. Attorno, le colline ricoperte da un fitto bosco; dietro la basilica, la linea ferroviaria che collegava la città a Torino, e ogni tanto un treno di passaggio, un fischio, che seminava il caos tra i piccioni sui tetti. Dirimpetto a lui, un edificio con al piano terreno la farmacia, l’edicola, un negozio di alimentari, di ceramiche; a sinistra la provinciale che proseguiva verso l’interno.
Poggiava accanto a sé il bastone, incrociava le braccia sul petto. Alzava un po’ il capo appuntito, un po’ di capelli grigi sulla nuca, e fissava lo sguardo verso il cielo. Come se ci fosse stato qualcosa, un aereo, una stella, o una nuvola dalla forma particolare. Dopo qualche minuto, girava la testa verso un altro punto. Non faceva nient’altro, per almeno un paio d’ore. Buona parte dei suoi compagni non usciva perché o non poteva, o non ne aveva voglia. E quelli che lo facevano, stavano alla larga da lui; desiderava starsene in pace, senza quei discorsi da vecchi, che gli riempivano le giornate per tutto il resto dell’anno. A un certo punto una persona per quanto anziana, ha bisogno di pensare, ma anche di non pensare. Fissare; guardare; respingere i ricordi di tutti quelli che sono morti, e più ci si avvicina al momento del commiato, più insistono, cercano di monopolizzare l’attenzione.
Basta.
La bella stagione era perfetta per lasciarsi alle spalle un mucchio di parole con cui doveva fare i conti ogni giorno; sempre le medesime, e non di rado erano la superficie di un intonaco che si sollevava, sotto appariva la malattia. Masticava il cervello, riduceva la persona a brani, riappariva a un tratto il bambino che voleva la mamma, la madre che doveva correre a casa dal figlio rimasto solo, il soldato che cantava vecchie canzoni coi suoi compagni, nelle pianure della Russia. Non erano solo i ricordi a detonare, scavalcare il recinto del passato, sino ad allagare il presente e a rendere il tempo una matassa confusa, indistinguibile, dove i morti non se ne erano mai andati, erano presenti e vividi, e i vivi erano irriconoscibili ed estranei. Anche l’appetito esplodeva, pantagruelico.
Il bello della primavera, dell’estate, era la possibilità di starsene per conto suo, e gli altri accettavano quel suo strampalato bisogno.
L’aria era umida, per colpa del piccolo torrente che scorreva sotto la piazza, si univa all’altro, e poi avanzava verso la città, ma ormai era sempre meno torrente, sempre più rigagnolo, e a giugno solo una scia di canne, pietre ed erbacce, sino al mare.
Chiuse gli occhi, e quando dopo qualche istante li riaprì, colto un po’ dal torpore, sobbalzò, scorse lì accanto l’infermiera bruna che da qualche mese era stata assunta, lavorava nel suo reparto. Una ragazza bassa, robusta, corti capelli bruni con una frangia rossa che spioveva sulla fonte alta. Fumava; sorrise, strizzò un poco gli occhi chiari e disse:
- Adesso, inizia la più bella stagione dell’anno.
Quando capitava qualcosa del genere, cioè che qualcuno gli rivolgesse la parola, si alzava e si allontanava, borbottando qualcosa. Invece restò, e rispose con una domanda:
- Lei va a spiaggia?
- Ci può scommettere -. Soffiò in aria il fumo della sigaretta, poi tirò su la manica sinistra del camice bianco:
- Sono già andata domenica scorsa -. E mostrò la pelle appena scurita. La sua invece era pallida, con certe chiazze sulle mani, sul volto magro.
Lui disse:
- Non dovrebbe fumare.
- Una ogni tanto, non ammazza nessuno. Lei non fuma?
- Ho smesso nel ’62 -. Rivelò.
La ragazza sgranò gli occhi:
- Accidenti -. Disse.
- Già -, annuì, – mi ero accorto che stavano giocando con me.
- Come scusi? -. E si avvicinò al vecchio.
- A quei tempi, vendevano le cartine per fare le sigarette, e il tabacco si comprava a parte. Adesso, non so se è più così. Mi sono accorto che aumentavano i prezzi, e la qualità del tabacco peggiorava.
- Sì -. Disse la ragazza.
L’uomo sforzò gli occhi grandi sul suo volto regolare:
- Anche se è un vizio, deve essere di qualità.
- Lei si era accorto che il tabacco era meno buono? -. Sorrise.
- Certo. Un vizio, è un piacere. Se me lo guasti, tanto vale smetterlo. Però la gente non ci bada, paga ed è contenta. Siccome spende, crede di avere il meglio, invece bisogna fare attenzione. Perché possono cambiare.
- Questo è vero.
- Scommetto che quello che lei fuma è una porcheria. Non possono che peggiorare. Vogliono guadagnare, nient’altro.
- Beh, – disse la ragazza, soffiando in aria il fumo, – sono industrie.
- Lo so. Mica si vive di aria. Ma ci deve essere la fiducia. Se questa va a farsi benedire… Ecco perché la gente si ammala: ci mettono dentro della robaccia, per spendere di meno, e farci pagare di più. Non è onesto.
Lei sorrise. Disse:
- Le secca se mi siedo qui accanto?
Nessun disturbo. Davvero.
- Lei cosa faceva prima di… -. S’interruppe, non sapeva come concludere quella frase.
- Di invecchiare? Di finire qui? Il maestro.
Teneva le mani sulle cosce robuste, la sigaretta tra le dita tozze.
- Di scuola?
- Elementari. È cambiato tutto. Cambiano i nomi, nessuno bada più a insegnare. Ormai, non me ne importa niente.
La giovane appoggiò il braccio sullo schienale della panchina. Disse:
- Non è vero. Gliene importa eccome.
- E se anche fosse? Ai vecchi nessuno bada. O perché diventano scemi, oppure perché puzzano. E se non diventano scemi o non puzzano, devono dire quello che gli altri vogliono sentirsi dire. Meglio stare zitti.
- Lei deve essere stato un bravo maestro.
- Non è vero. Davo certe bacchettate sulle mani.
- Sul serio? Picchiava i bambini?
- Ma no, cosa dice -. Esclamò. – Ogni tanto. Non è bello agire in quel modo. L’ho fatto di rado – spiegò, – e mi rendevo conto che era qualcosa d’altro che mi spingeva a farlo.
- Che cosa?
- Pensieri, arrabbiature, bollette da pagare. Cose storte che mi finivano tra i bambini, salivano sulle spalle dei più turbolenti. Bacchettando loro, me la prendevo con i miei guai. Non sono cose da fare -. Concluse crollando il capo.
La ragazza schiacciò a terra la sigaretta, guardò l’orologio da polso:
- È ora di rientrare per me.
- Si trova bene a pulire culi? -. Domandò il vecchio.
La ragazza scoppiò a ridere, si girò di lato, lo guardò ed ebbe un altro scoppio di risata.
Lui la osservò, incuriosito da quella reazione.
- Che c’è? -. Chiese infine. Poi aggiunse:
- Crede che i vecchi non dicano parolacce? Non abbiano brutti pensieri?
- No, questo no -. Disse la ragazza, alzandosi in piedi.
- Non mi ha ancora risposto.
- Va bene così -. Si strinse nelle spalle massicce, ficcando le mani nelle tasche del camice. – Di questi tempi non si può essere troppo schizzinosi.
- È vero -. Annuì.
- Lei non si considera vecchio -. Aggiunse la ragazza. L’uomo parve colpito dall’osservazione, la fissò attendendo una spiegazione. Arrivò dopo qualche istante:
- Lei dice: “I vecchi”, come se fosse una faccenda che riguarda gli altri. La vecchiaia intendo.
L’uomo prese il bastone, abbassò il capo:
- Non saprei, non ci ho mai fatto caso. In fondo, ero un maestro, neppure tra i migliori, e ho sempre lavorato in scuole dell’entroterra. Lo sono diventato grazie a raccomandazioni, regali, tessere.
- È così che va -. Affermò la ragazza. – Per entrare qui, ho dovuto scomodare un po’ di gente.
- Sa che le dico? -. Riprese a parlare l’uomo, grattandosi la testa lucida con le lunga dita della mano destra, un po’ tremolante. – Ha ragione. Non mi considero vecchio. È l’unico mezzo per non diventare un mobile dell’ospizio.
- Si dice residenza protetta -. La ragazza sorrise, divertita.
- O discarica per persone che non servono più a niente, e non si decidono a crepare.
- Non ha figli?
- Ne avevo uno.
Sentì su di sé lo sguardo della ragazza che frugava. Disse:
- E’ morto.
- Mi spiace -. Mormorò.
Dopo qualche istante la ragazza gli si avvicinò di nuovo. Chiese:
- Le posso dare un bacio?
Si riscosse da quel dolore sempre ben vivo e pesante; sgranò gli occhi, puntò l’indice al petto:
- A me? Vediamo, – e si mise a riflettere, – è da tanto che non ne ricevo uno, credo dal 19…
- Faccio finta che sia un sì -. E gli diede un bacio sulla fronte.
Il vecchio allora allungò la mano, la prese per il robusto polso, e guardandola negli occhi le disse:
- Se un giorno finirà in un posto come questo, non si arrenda. Scappi dall’idea che gli altri si fanno di lei. Siamo meglio delle idee, siamo persone.
La donna gli sorrise, arrossì, fece sì col capo. La lasciò andare, e rientrò nell’ospizio.
Il vecchio sospirò; sulla strada passò una motocicletta diretta in città. Si alzò una brezza; socchiuse gli occhi e tornò a sollevare lo sguardo verso il cielo, sereno, qualche nube appena, e la scia di condensa di un aereo che si allontanava in direzione della Francia.
- Chiacchiere -. Disse dopo pochi istanti. – Alla fine, per quanto tu ti creda furbo, o intelligente, sei solo un vecchio.
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