Dice bene Lucini parlando di durata, di opere che restano perché continuano a provocare una reazione non solo estetica, ma anche esistenziale. Cosa ti ho dato di buono / Non lo so: sta qui la grandezza della poesia, mai cosciente del dono inestimabile, non quantificabile, capace di cambiare il corso di una storia personale e universale. Sono così le poesie di Fortini, Betocchi, Pasolini; sono così le tue, tracce invisibili che scavano nel cuore, lasciando questioni in sospeso che perdurano in un loro lavorio sotterraneo: Vita non è solo quella che vedi, Ce n’è un’altra nascosta; uno spessore, appunto, attingibile solo da chi ha una vocazione di speleologo, umile e pronto a un eroismo non riconosciuto né rimunerato. In fondo, il poeta ha il compito di cogliere tutto ciò che la folla ignora e trascura come inutile: Calvino ha insegnato valori – la leggerezza, per esempio – che vanno in direzioni cui tu riesci a dare un sigillo convincente: Ci sentiamo leggeri avvertendo / il respiro che si ferma / si pensa e si riprende / dove e quando non sapremo. La poesia ha la vocazione difficile di indicare un vuoto, una mancanza, di denunciare l’incapacità di una cultura menzognera di nutrire l’anima: Fame siamo / e briciole che restano del pasto. Mai come oggi fare versi è politica, mostrare che il re è nudo, oltre la cortina della sarabanda mediatica e pubblicitaria: Molte parole e poche azioni/ incomprensibili. E ancora parole / come coriandoli di terra / che ci seppelliranno. Politica autentica è anche riconoscere l’impermanenza del potere, la discontinuità dei passaggi di coscienza e di maturità, che suggeriscono di mettere ogni volta in discussione le certezze granitiche e patetiche, nello stesso tempo: Vecchi ormai vi incrocio, / e ad ascoltarvi mi fermo curioso, / e commosso dai racconti che mi fate / di voi di me dell’estraneo che divento / poco a poco. Salvo scoprire che la massa si arrende alla legge del più forte, rischiando di cancellare ogni orizzonte di luce o di voce: Se fossimo uniti / i pochi condomini che siamo / sarebbe una battaglia vinta. / Ma non c’è grido che si somiglia. Eppure, dallo scacco e dal dolore è possibile che sorga un mondo nuovo, l’utopia necessaria, grondante del sangue che ogni comporta ogni speranza, altrimenti non sarebbe tale, in faccia al mondo: Il tempo è appeso alla tua gola / le lancette del quadrante / vi si figgono e ritrovi / dell’ora più ferita / sulla carta una parola. La parola di poeta lacerato e redento dal futuro che ti scava senza fare sconti, senza mentire, rivelando lo spessore di una storia e, Dio lo voglia, di ogni storia. (Fabrizio Centofanti)
*
Giovanni NUSCIS
La parola e lo spessore
Puntoacapo Editrice, 2010
I Quaderni di Poiein n. 4
Note critiche di Gianmario Lucini
Con la raccolta inedita “Transiti”
*
Da: Transiti
Mosche
Pensare cose lievi
con dita basse che tornano
alla longitudine del corpo;
pensare che oltre sarà il fiato
a dire cosa incontra o resiste.
Come una mosca puntare
al chiarore che giunge dai vetri
infilata tra tenda e finestra
in attesa che s’apra
o d’una pietra
di un becco impazzito
per il volo magari
tardivo di un metro.
*
Specchio
Ti scopri in uno specchio
lontano come dalla luna.
Un brivido quegli occhi che s’incrociano
dalle tribune precarie di due corpi:
una più dell’altra.
Un corpo tracciato da solchi
dove la vita s’imbotra
e scoppia il cuore,
bengala nella notte;
l’altro senza tempo
che si ribella, guarda severo
s’allontana.
Sapersi piccoli
in un dissidio così grande
in un amore-odio così antico
e così inedito che si rianima
l’istante in cui il nemico
ricompare in quello sguardo
al suo bersaglio.
*
Fuori mano
La mano che segna nomi, simboli, croci
non vede dal bianco della carta
le membra tenere d’inchiostro
affiorare e comporsi
prendere il largo, dal foglio.
Non c’è mano che possa più fermare
quella mano
quei piedi svelti che camminano
gitani dove non sappiamo.
*
Matrioske
Vi tengo tutti dentro
con amore e rispetto voi
che col mio nome
vi siete divisi il mio sangue
il mio tempo.
Vecchi ormai vi incrocio,
e ad ascoltarvi mi fermo curioso
e commosso dai racconti che mi fate
di voi di me dell’estraneo che divento
poco a poco.
*
Calla
Nei condomini in silenzio
la domenica, coi gatti pure loro fuggiti
tu nell’ombra del cortile
sei la calla tra i fondi di caffè
e il borbottio dei vecchi rimasti.
Il giallo del tuo cuore
è la tosse del vicino che ti espelle;
dal buio dietro le persiane
i suoi occhi ti rotolano dentro
quando passi serbando le parole
oscure della tua gioia dolente.
Voli col tuo sogno di polline
e il corpo niveo resta immobile
ad accogliere la cesoia dall’alto.
Prima della morte in un vaso
una farfalla si posa
e ti si annuncia come un angelo.
Penso a Fernanda
a l’ombra di quel re
che mai nessuno ha visto,
e penso a te lontana
gemere tra dita affilate.
*
Classe di ferro
Siamo i migliori. La classe
di ferro di Buzzati.
Ma se una lama affonda sui fianchi
è identico il sobbalzo
intinti nel colore
di un tempo eterno.
Millenni di rincorsa
precedono un’azione, una parola
tra sguardi inebetiti, teste rotte.
Vecchie girandole
che sembrano nuove
dove a cambiare
è solo il fiato
che le fa andare.
*
Leader
L’auto lo portava sotto il palco.
Molte le braccia intorno
setole di scopa a mondargli
umore e coscienza.
Sui bordi della piazza
nei volti smagriti degli astanti
il piacere di predirgli una fine
non diversa dagli altri.
Ad ogni parola del comizio
sulle serrande dei negozi
l’avviso di un lutto
una malattia
un inventario in corso.
Molte parole e poche azioni
incomprensibili. E ancora parole
come coriandoli di terra
che ci seppelliranno.
*
Lama di luce
Tutto torna
nella gabbia sfondata del tempo
lineare, senza preveggenza.
Occhi di corvo trapassano
il gelo dei millenni.
Piedi affondano senza radicare
su terra che muta e non cambia.
Sembra fiorire tutto in fretta
e di colpo morire
lama di luce che taglia
un getto ininterrotto di petrolio.
E tu ricordi certo mani
che ti cullavano
la voce che ti accompagnava
credendo
che non t’avrebbe abbandonato.
*
Briciole
Non ho imparato dalla neve.
Cado, mi perdo
nel pozzo buio dell’attimo,
senza dissolvermi.
Vedere con saio di corteccia
addormentarsi i rami.
Non fughe dalla radice
le primavere che passano
senza arrivare, d’estate
le foglie tossiscono il fumo
di un corpo mai nato.
Fame siamo
e briciole che restano del pasto.
*
Nettare
Gli aghi del maestrale
sul viso smunto dell’inverno.
Le anime magre dei ghiacci
colano sulla terra.
Occhi si spalancano
come voli di cavallette.
Corolle secche cadendo
serbano una punta di nettare
come seme tardivo
come resina
da un tronco ferito.
*
Transiti
Quindici rami dove
cantavano molti uccelli
dalle mete imprevedibili.
Spara il destino un solo
colpo di bombarda
che schianta l’albero
spegnendone le voci.
Ci resta una tua foto
e un tuo disegno
pubblicati sul giornale
l’intera classe e la prof
di spalle. Tu, larga ora nel verde
abbracci intero il bosco
che non muore e si rigenera
senza te che aliti invisibile
nutrendo nuove gemme.
(23 marzo 2010 – A Silvia, nel giorno del suo transito)
*
Padri
Oltre questi monti
dai valichi erosi dai passi
ali d’aquila sono
le bianche camicie dei padri
sospese nell’aria;
alte e inarrivabili persino
da queste cime pietrose;
e impennano gli sguardi
cercando la ragione del salire
della molta fatica richiesta,
dello sgranarsi della fila,
noi nel mezzo non vedendo
se non il bianco sopra
lieve e distante.
*
La ricerca della profondità allusiva, di una forte carica di senso nel dire poetico è stata, fin dalla sua prima pubblicazione, una costante della poesia di Giovanni Nuscis. Da molti è stata sottolineata anche la “tensione etica” di questa scrittura, quasi a sottolineare la sua intrinseca contrapposizione al vaniloquio, allo scrivere tanto per scrivere. Nuscis infatti non è uno che scrive molto: la sua prima raccolta è del 2003 e la raccolta che qui presentiamo è la quarta. Dunque, circa 200 poesie in circa 10 anni:, considerando che la prima raccolta, di un’ottantina di testi, probabilmente contiene composizioni di molto precedenti il 2003. E’ uno, Nuscis, che parla anche poco, come molti sardi che conosco. In compenso è uno che riflette molto e questo suo tratto è ben visibile nel suo lavoro poetico. La “tensione etica” che si rileva nei suoi testi è frutto di questa riflessione, di questo confronto interiore e sofferto con il mondo, di questo dialogo problematico fra emozioni, sentimento, sensazioni, pulsioni e razionalità. E’ il contrario del poeta vulcano – colui che, pizzicato da uno stimolo, apre una specie di valvola che dà sfogo a un ribollire incontenibile. Il ribollire di Nuscis è a fuoco lento, è segnato anche dall’osservazione, dall’interrogazione, da una calma più disciplinare che caratteriale. La sua scrittura a volte sembra lasciar trasparire questa tensione fra energia creativa ed esigenza della misura, dell’equilibrio e anche del trovare la forma appropriata ad esprimere un verso armonizzato col senso del messaggio poetico. Il suo lavoro mi dà l’impressione di una ricerca tenace e certosina, paziente, nella ricerca di basi solide alla sua poetica.
E’ dunque lo “spessore” che il poeta cerca nel suo dire e l’aspetto che più privilegia nel suo lavoro. Non è soltanto una “tensione etica”, che pure è presente – questo nome “etica”, come in suo simile “estetica”, è piuttosto ambiguo: dice tutto e non dice nulla perché sia l’etica che l’estetica sono sempre riferimenti soggettivi, a meno che non ci si richiamino esplicitamente a una metafisica dalla quale possano essere mutuate, come “l’imperativo etico” nella filosofia di Kant o “la morale cattolica” o altro. É la più naturale ricerca di senso, che trova radice nell’essere ontologico, nella
differenziazione ontologica che ci caratterizza rispetto al resto del genere animale del quale pur facciamo parte. É, infine, la capacità di interrogarsi, di cercare risposte più che di trovarle. Anche un filosofo fa la stessa cosa: da un certo punto di vista tutti siamo filosofi. Ma lo “spessore” di una filosofia va individuata nella forza della sua argomentazione e nella capacità di resistere alle argomentazioni di altri approcci filosofici. Lo spessore della poesia, invece, va cercato non in argomentazioni oggettive ma nella sua capacità di tradurre in un linguaggio appropriato un mondo diverso, vero per sé stesso e non per dimostrazione logica. Nel processo filosofico lo spessore di un’opera si riconduce a un’operazione affidata all’efficacia del ragionamento basato su elementi considerati “oggettivi”, nel pensiero poetico il ragionamento non viene invece (necessariamente) esplicitato perché il poeta non ha bisogno di dimostrare nulla, ma soltanto di alludere alla verità (soggettiva) che egli sente. La verità espressa in questo modo dal poeta, può essere raccolta o rifiutata dal lettore, ma questo non scalfisce minimamente lo “spessore” della poesia: anche se il nostro mondo interiore è diverso e in qualche modo in dissenso con quello del poeta, nondimeno però dobbiamo riconoscere, con un atto di onestà intellettuale, lo spessore della sua poesia. (Dall’Introduzione di Gianmario Lucini)