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Credo che sia questo il messaggio dell'ultimo film di Almodòvar che, abbandonati ormai del tutto gli eccessi giovanili( o meglio ricondotti in forme meno indigeste alla massa) , si dedica alla citazione del cinema altrui ma soprattutto del proprio.
Lo status dell'autore è raggiunto, ora è concesso guardarsi alle spalle e rileggere il proprio passato.
Pedro è ormai un giocoliere della scrittura e della telecamera, i suoi film hanno una cifra stilistica personale anche quando sono sfrontatamente transgenere come questo che è allo stesso tempo thriller, straziante melò, horror e dramma esistenziale.
Eppure continua a trattare il suo cinema come un puzzle da scomporre e ricomporre a piacimento, il suo cinema è un mosaico dalle tessere impazzite.
La pelle che abito non è il miglior film del regista spagnolo ma pur nella sua apparente diversità dal resto della sua produzione è assolutamente coerente col suo percorso registico fatto di ricerca di by Vid-Saver"> by Vid-Saver"> by Vid-Saver"> by Vid-Saver">nuovi stimoli e di nuovi generi da plasmare mediante la propria vena kitsch tendenzialmente anarcoide.
Almodòvar si guarda allo specchio e prende nota delle sue ossessioni, i flashback si incastrano gli uni con gli altri flettendo a proprio piacimento l'unità temporale e moltiplicando i piani narrativi (come succedeva ne Gli abbracci spezzati), appare una sorta di uomo tigre sessodipendente che non può far by Vid-Saver"> by Vid-Saver"> by Vid-Saver"> by Vid-Saver">altro che ricordare Lègami, c'è la solita sequela di relazioni proibite, figli non voluti e fratelli non consapevoli di esserlo classica del suo cinema ad alto tasso di trasgressione.
E poi ci sono gli Occhi senza volto di Franju, ci sono le cuciture a scomparsa di un Frankenstein postmoderno e c'è anche il Rock Hudson che ha incredibilmente cambiato faccia nel cinema di Sirk.
Iperboli che sarebbero troppo acrobatiche per qualsiasi autore e che invece non meravigliano affatto quando le troviamo nel cinema del regista iberico.
Il quale dal canto suo forse ha trovato un'altra musa: Elena Anaya riesce a far dimenticare Penelope Cruz e nello stesso tempo ricorda l'Irene Jacob musa kieslowskiana incisa a fuoco nella memoria di molti cinefili.
La sua pelle mostrata molto generosamente , il suo corpo trattenuto e accarezzato da un body prima color carne e poi color nero sono l'immagine forte del film.
Assieme alla sequenza in cui Banderas di spalle vede il volto di lei ingigantito dallo schermo che ha davanti.
Noi NON siamo la pelle che indossiamo o la faccia che abbiamo.
Noi siamo quello che abbiamo dentro.
( VOTO 7,5 / 10 )
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