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La persistenza dell’iconografia classica nell’immaginario cinematografico

Creato il 20 febbraio 2015 da Oggialcinemanet @oggialcinema
La persistenza dell’iconografia classica nell’immaginario cinematograficoViviamo in un mondo di saturazione visiva, in una cultura di massa eminentemente “oculocentrica”, afferma Roman Gubern, dove la maggior parte dell’informazione ci arriva attraverso il senso della vista, e dove molta di questa viene consumata attraverso i medium audiovisivi. Ogni cultura costituisce un insieme di sistemi simbolici all’interno dei quali gli impianti iconici stabiliti costituiscono una pedagogia della visione, orientati alla decodifica delle forme canoniche della sua iconosfera. L’ampliamento di questa iconosfera, costituitasi nelle società industrializzate nella seconda metà del XX secolo, ha favorito un’attitudine illustrativa generalizzata ma questa densità iconica è, per contropartita, responsabile della banalizzazione dell’immagine e dell’anestetizzazione della realtà. Le immagini banalizzano e anestetizzano la realtà afferma Susan Sontag. Quando si è ripetutamente esposti alle immagini, esse diventano meno reali, anzi, le fotografie rappresentano una forma di consumismo estetico al quale tutti sono dediti.In questo paesaggio caratterizzato dalla “opulenza mediatica”, si ha bisogno di una nuova educazione che promuova la conoscenza dei linguaggi di comunicazione per un consumo intelligente dei messaggi. “I cittadini delle società democratiche dovrebbero seguire un corso di autodifesa intellettuale per evitare la manipolazione del pensiero ed esercitare una costante rielaborazione critica dell’informazione”, afferma Noam Chomsky. Una delle “armi intelligenti” per combattere lo sguardo passivo potrebbe essere, a nostro parere, un approccio comparato del racconto cinematografico, che passa attraverso l’analisi del suo contesto storico e indaga sulle contaminazioni con altri film e con altre Arti.Gli elementi iconografici della tradizione artistica trovano, all’interno dell’immaginario visivo attuale, uno spazio di ricollocazione assai interessante: i prodotti audiovisivi. Le immagini mostrano il processo di ispirazione/contaminazione tra il celebre dipinto di Edvard Munch Il grido (o anche Urlo, titolo originale in norvegese: Skrik) e l’altrettanto famosa sequenza del film The Shining (1980) di Stanley Kubrick. Il dipinto ha sicuramente inspirato la maschera di Halloween che indossa l’omicida nella quadrilogia cinematografica Scream (1966) di Wes Craven. Del capolavoro Shining possiamo inoltre osservare le assonanze iconografiche con la fotografia Identical Twins, Roselle (New Jersey, 1967) dell’americana Diane Arbus e le gemelle.L’obiettivo primario dei prodotti audiovisivi è quello di veicolare un messaggio e raggiungere efficacemente un obiettivo. Dal punto di vista comunicativo, i veri eredi di Pisanello, Botticelli, Ghirlandaio, etc. sono i direttori della fotografia dei film e gli art director delle agenzie di pubblicità. Nei meccanismi di produzione dei film riemergono tutti gli elementi che caratterizzavano il contesto culturale entro cui l’artista del passato giocava il suo ruolo: la presenza di una committenza forte, economicamente potente ed esigente, la necessità di un “prodotto da significare” e infine il confronto necessario con un target-pubblico in possesso degli strumenti adatti per capire correttamente il messaggio lanciato. Nel dialogo tra la tradizione artistica occidentale e i prodotti audiovisivi attuali si è deciso di indagare sui dispositivi di citazione e di rivolgere l’attenzione ai rapporti che esistono tra il sistema iconografico classico e il linguaggio cinematografico contemporaneo. L’articolo esprime la fascinazione provocata dalla materia antica, indipendentemente dal suo oggettivo valore e direttamente dipendente dalla sua capacità di presa sul “fruitore” e che si misura sul grado di risonanza determinata anche dalle condizioni contingenti (le tendenze individuali e collettive del gusto e della conoscenza) di diffusione dei riverberi dell’antichità. All’interno della secolare relazione tra antico e moderno si sviluppa lo spazio, o meglio il tracciato, che sottolinea il rapporto esistente fra la memoria occidentale e il mondo dell’immagine attuale.La cinematografia e la sua storia rappresentano una dimensione funzionale allo studio di trasmissione delle immagini e più in generale dei meccanismi della memoria culturale. Introdurre analiticamente il problema non è cosa facile; sarà comunque necessario in questa sede fare alcune precisazioni. Il concetto di antichità porta con sé l’idea, l’aura, della grandezza del passato intero – soprattutto quello della prospettiva culturale mediterranea – in una sorta di continuità materiale e culturale rispetto all’era pre-cristiana. Il rapporto con l’originale – l’atmosfera di un’opera, gli elementi trasferibili di uno stile – è da intendersi in senso “tipografico” e da considerarsi come una sorta di trascrizione – in alcuni casi di altissima raffinatezza – di stilemi ideali appartenenti a un determinato contesto espressivo. Nella creazione di un prodotto audiovisivo si cela un simbolo, un tema, un motivo, appartenente al codice della tradizione culturale. Il simbolo può non essere oggetto della comunicazione, può essere sfruttato o meno direttamente, può non essere rivolto all’attenzione del fruitore.Il messaggio del prodotto audiovisivo definito in questi termini si può quindi considerare attraverso uno sguardo che non è quello del creatore del prodotto o del fruitore-consumatore bensì quello del “conoscitore” amante del “bello”, e ha diretta relazione con i meccanismi di definizione della memoria culturale collettiva. Questi frammenti filmografici possono essere presi ad esempio come un vero e proprio esercizio formale d’ispirazione ed evoluzione di un modello della tradizione pittorica postmoderna. L’opera in questione è Il castello dei Pirenei (1959) di Renè Magritte, che raffigura un castello in cima a una roccia sospesa nel vuoto, sullo sfondo di un cielo nuvoloso sopra il mare mosso, che ha ispirato il film Castello nel cielo di Hayao Miyazaki (1986) e probabilmente anche Avatar (2009) di James Cameron. I prodotti audiovisivi sono proposti in una scena stilisticamente attendibile, ossia riconducibile a linee formali attestate – se non già stereotipate – in una collocazione riconoscibile o intuibile.La commistione di elementi appartenenti a generi o epoche differenti risulta coerente all’atmosfera ricreata nella messa in scena cinematografica. Gli esempi che seguono mostrano un processo di libera ideazione da un classico: il messaggio del prodotto audiovisivo allude, spesso in modo diretto, ad autori, opere o singoli elementi del repertorio dei classici. Il regista Guillermo del Toro, in un’intervista al magazine inglese The Guardian, discutendo sulle molteplici influenze dell’arte pittorica sui film di genere Horror, affermava: “C’è una scena ne El Laberinto del Fauno in cui il mostro afferra con le mani le fatine volanti e ne divora una. Quest’immagine mi è arrivata direttamente dal quadro Saturno che divora suo figlio di Francisco Goya”. I film Manhunter-frammenti di un’omicidio (Michael Mann 1986) e Red Dragon (Brett Ratner, 2002) sono evidentemente inspirati agli acquarelli del poeta e pittore William Blake, dipinti tra il 1805 e il 1810, contenuti nel suo libro Il grande Drago Rosso e conservati al Museo di Broklin. Nel film e nel libro, il personaggio del serial killer Francis Dolarhyde era così ossessionato dal Dragone di William Blake che se ne fece tatuare uno sulla schiena. Il classico è un punto di partenza che può presentarsi come modello (singolo o plurale) individuabile, ossia riduzione ideale da un’immagine, più o meno nota, attestata storicamente. Alfred Hitchcock venne chiaramente ispirato dal lavoro artistico di Edwards Hopper (celebre il suo quadro Nightawks) per Psycho che è probabilmente il film dove più si evidenziano le similitudini iconografiche con Hopper. Non solo la casa in Psycho ricalca lo stile architettonico del House by the Railroad, ma il regista considerava che il personaggio di Norman Bates (interpretato da Antony Perkins) dovesse essere una versione vivente del quadro di Hopper. In quest’operazione il modello iconografico classico viene richiamato con la sottigliezza dell’intuizione, e viene vincolato al prodotto cinematografico come elemento visuale dai contorni allusivi e imperniato sui meccanismi induttivi, e non subisce alterazione di senso, poiché i suoi significati non sono messi in discussione. Il classico si presta a essere plasmato, riadattato al messaggio cinematografico attraverso processi di sottrazione e/o addizione formale, mascheramento, deformazione. Si tratta di una costruzione che nasce dalla modificazione o dall’integrazione di uno o più elementi di opere classiche (e non).Frequente è soprattutto il caso dell’inserto attuale – il prodotto reclamizzato o un elemento a esso funzionale – dettato dallo specifico contesto del messaggio pubblicitario. L’oggetto pubblicizzato può diventare elemento aggiuntivo (o sostitutivo di una parte) del classico, guadagnandosi spazio per consonanza o pertinenza formale o forzata alterazione. Gli esempi sono accostabili alla pratica del riadattamento nell’ambito della ritrattistica o, più puntualmente, a quella della risemantizzazione per via di sostituzione degli attributi/elementi accessori che caratterizzano le figure (soprattutto allegoriche) della tradizione. L’emergere di un simbolo della tradizione in un contesto impertinente permette la riattivazione di un ricordo: un’immagine pubblicitaria può trascinare con sé, soprattutto per consonanza formale, una rete di significati stratificatisi nel corso della storia. Si tratta di opere o dettagli antichi riusati nel contesto pubblicitario. Il classico è oggetto dell’immagine pubblicitaria; uno slogan impiegato in forza della propria auctoritas. L’esempio mostra i passaggi del processo a partire da un rilievo che raffigura una Naiade di Jean Goujon situato in una fontana nel cuore di Parigi come fonte di ispirazione per il quadro La Source di Ingres esposto al Musée d’Orsay che serve come modello per una pubblicità di Jean-Paul Goude pubblicata sulle pagine patinate di varie riviste di moda.I frammenti di figure classiche più o meno celebri, subiscono un processo di risemantizzazione: la stratificazione del valore simbolico e la molteplicità dei significati contestuali del classico sono annullati in favore di una comunicazione diretta. In questi casi, il contesto storico-artistico originario del classico si situa quasi esclusivamente a un secondo livello di lettura e viene dotato di valore intrinseco. Oggi, le immagini, i miti e simboli provenienti dalla iconografia classica e dalla produzione artistica vengono comunemente e continuamente usati per la trasmissione di concetti, idee e informazioni. Bisogna sottolineare come il riemergere della iconografia della tradizione classica possa anche giocare sull’inconscio: cattura i fantasmi ancora vitali del passato attribuendo loro un senso altrimenti non percepibile. Trattando materiali visivi di facile accesso, con i quali il pubblico ha un rapporto di consuetudine quotidiana e di familiarità, l’ars pubblicitaria funge da “medium” di divulgazione dei meccanismi e dei temi della tradizione classica, strizzando l’occhio anche al lettore mediamente colto, che non abbia particolare interesse per gli studi umanistici, ma che si può comunque lasciar tentare e coinvolgere nel gioco complice di rinvii eruditi. In ogni caso si tratta comunque di segni forti e sensibili della vitalità dei responsabili dell’immagine audiovisiva attuale. I maestri contemporanei non smettono di attingere dai grandi maestri del passato. Per dimostrare che la tradizione è un essere vivo, vengono individuati alcuni riferimenti plastici tra il film The Others (2001) di Alejandro Amenabar e alcuni artisti, con le cui opere è possibile effettuare un confronto visivo e tematico. Georges de la Tour (1593-1652), è un pittore del barocco francese, influenzato dal tenebrismo di Caravaggio. Le notti di La Tour utilizzano la luce artificiale, proveniente normalmente da una candela, e risolvono il colore; a volte, una semplice macchia rossa da vita a tutta una gamma di scuri. A causa della malattia dei figli, Grace deve illuminare la casa con una candela, tenue, come la pittura de De La Tours. Senza dubbio Javier Aguirresarobe, direttore della fotografia, ha saputo ricreare l’atmosfera del pittore francese.La fotografia è di Ramón Caamaño (1908) fotografo galiziano. Manuel Sendon, autore del prologo di un’esposizione sul fotografo afferma: “L’azione di fotografare i morti non è attorniata da morbosità, bensì al contrario era realizzata per avere un ultimo ricordo dell’essere amato e veniva accettata come azione formale. Posteriormente i famigliari afferrandosi a questa immagine, come se fosse la realtà, facevano perdurare il ricordo tra tutta la famiglia”. Nel film, la sequenza delle foto determina un punto di svolta, Grace rimane sconcertata dal macabro “libro dei morti”, mentre la signora Mills le suggerisce “Il dolore per la perdita di un caro può far commettere alle persone delle cose strane”. Nel fotogramma si può osservare un ritratto di corpi senza vita degli inservienti. È la foto che mancava e che permette a Grace di iniziare a comprendere la loro, e la sua vera natura. Alejandro Amenàbar appare assieme al suo compagno di appartamento Mateo Gil e Carlos Montero in una delle fotografie di The Others. Wilhelm Hammershoi (1864-1914) è un pittore impressionista e naturalista, uno dei più importanti della Danimarca. Le sue radici si possono incontrare nell’epoca d’oro della tradizione della prima metà del secolo XIX, anche se rimane profondamente originale. La sua tecnica soave cattura l’attenzione di chi lo osserva per la sua enigmatica e segreta qualità e per l’uso di un limitato numero di colori. La sua opera mostra alcune similarità con la scenografia, gli ambienti e i costumi del film di Amenàbar. L’inquadratura di Grace, affaccendata nelle mansioni domestiche, ridisegnano profondamente la scena del pittore Hammershoi che utilizza un numero limitato di generi ben definiti: interni, quasi sempre di casa sua, senza nessuna presenza umana, ad eccezione di un personaggio femminile, generalmente affaccendato nelle mansioni domestiche; vedute architettoniche paesaggi e alcuni ritratti. Gli interni di Wilhelm Hammershoi rimandano agli ambienti della mansione vittoriana di The Others e partecipano al clima di angoscia patito dai personaggi del film. Il quadro individuato è stato realizzato da Jean François Millet (1814-1875). Il pittore equipara la campagna e la vita rurale con la felicità e la melanconia, in una chiara reminescenza del sentimento romantico. Salvator Dalì ci offrì l’interpretazione del quadro di Millet, dicendo che pregavano per un figlio morto. Tenebrosità, che evoca la storia di The Others. Confrontando il “Marte” (1640-42) di Velázquez, conservato al Museo El Prado di Madrid, con l’inquadratura del film Il Petroliere, (titolo orig. Will Be Blood di Paul Thomas Anderson, 2007) possiamo osservare che le analogie emergenti non si limitano all’aspetto cromatico – figurale, attengono altresì alla psicologia del personaggio.Sia l’uno che l’altro sono ritratti in una posa inconsueta: sotto le mature e nervose corporature, dietro ai baffoni, questi due guerrieri in riposo appaiono più vulnerabili e umani che mai, assorbiti come sono da pensieri che proiettano su quel che contemplano in fuoricampo. Anderson sfrutta al meglio le qualità espressive di Daniel Day-Lewis (alias il Petroliere), valorizzando lo spettro emotivo della sua fisionomia per conferire al personaggio profondità e ricchezza di sfumature. Studi iconografici hanno posto in evidenza come i referenti di Velázquez fossero proprio figure di pensierosi, sia scultoree, come l’“Ares” Ludovisi (320 a.C.) e “Il pensieroso” michelangiolesco della Sagrestia Nuova (1520-34), che pittoriche, come “Ercole al bivio” (1596) di Annibale Carracci . Con questa (limitata) carrellata di esempi si è voluto gettare uno sguardo su di un aspetto particolare del mondo dell’immagine: mettere in mostra una selezione mirata di frammenti cinematografici che contribuissero alla definizione e alla verifica di concetti collegati alla storia della iconografia classica. L’autore si scusa con i lettori se, in alcuni casi, ci si è soffermati alla mera influenza di opere classiche con alcune inquadrature filmografiche tralasciando, per questioni di spazio, una doverosa e approfondita indagine con altri stili, autori e registi. A me la convinzione dell’impegno e onestà profuso nel lavoro svolto, e aggiungo: “È la cinematografia che usa la Tradizione Artistica Classica come repertorio di temi, forme e miti, o è invece l’eredità culturale che usa la cinematografia come veicolo di trasmissione per tramandarsi e sopravvivere?”.di Cesare Aceti per Oggialcinema.netLa persistenza dell’iconografia classica nell’immaginario cinematografico ultima modifica: 2015-02-20T17:50:22+00:00 da Redazione OAC

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