Cominciamo a sfatare una leggenda metropolitana dell’italica critica. La pietra di luna è il primo romanzo poliziesco British; proprio per questo, La pietra di Luna non è il primo racconto giallo della storia della letteratura. Le parole infatti sono importanti, e “British novel” non coincide con “American detective story” (quella che fu invece portata sulla scena da Edgar Allan Poe nel 1841, dando linfa di carta e inchiostro al commissario Auguste Dupin). Resta tuttavia, sine dubio, che il lungo Ottocento delle tante scoperte tecnico-scientifiche sancisce una passione (e una fiducia) per la ragione umana capace di spiegare ogni mistero che intride l’immaginario nel profondo, e proprio per questo elabora, allo scopo, nuove tendenze letterarie. Così come è vero che – dopo questo primo atto di nascita americano – in Inghilterra la premiata ditta Dickens-Collins lavora a lungo sugli elementi della detection, dando vita a una serie di romanzi che presentano componenti esplicite del futuro genere (e anche qui è Dickens a anticipare l’amico e collega Collins: Casa desolata, con l’ispettore Bucket; Barnaby Rudge). In questo contesto, Collins arriva dopo, e rielabora molti elementi già sperimentati dall’amico/rivale e socio in editoria e pubblicazioni. E, come spesso capita, riflette e perfeziona, portando a compimento una struttura (quella dell’indagine, spesso sotto forma di ricostruzione giuridica di testimonianze) che arriva a occupare in maniera esplicita lo spazio di maggioranza dell’intera narrazione. È in questo contesto che La pietra di luna (pubblicata nel 1868, e dopo il grande successo della Donna in bianco) fa la sua comparsa. Romanzo costruito sul modello del precedente, anche in questo Collins sembra voler sperimentare le potenzialità del punto di vista, e della narrazione a più voci. La funzione, ancora una volta è quasi ‘giuridica’: ogni personaggio scrive quella che viene definita la sua testimonianza diretta; perché rimanga memoria dei fatti narrati, certo, ma anche e soprattutto perché questi fatti vengano sottoposti nella maniera (fintamente) più oggettiva possibile a un lettore ignaro fino a quel momento; e che quindi viene contemporaneamente sfidato a fare da ‘aiutante’ nella detection, ma anche da giudice finale nella valutazione del caso. Questa oscillazione – tra romanzo giuridico e detection – segnala che ancora un’incertezza di fondo qualifica un genere che va codificandosi attraverso esperimenti narrativi (e che arriverà a una sua compiutezza di lì a pochi anni, quando uno scozzese di talento, Sir Arthur Conan Doyle, darà vita a Sherlock Holmes).
I fatti sono quelli di un furto inspiegabile: una famosa gemma indiana – preziosa e superstiziosamente intoccabile – la pietra di luna appunto, sparisce da una casa di campagna. E le indagini del detective chiamato a investigare sul furto non portano a nulla, lasciando sulla casa (e sulla famiglia direttamente coinvolta) un alone di mistero. Attraverso il racconto a posteriori dei personaggi coinvolti nella vicenda, pian piano il mistero verrà dipanato e risolto, in senso sia giuridico (il colpevole viene rivelato senza ombra di dubbio), sia, in maniera vittorianamente impeccabile, morale (non solo il ladro trova una sua fine giusta, ma la gemma ritorna là dove è stata trafugata dall’occidente, nel cuore dell’India più profonda e oscura). Già questi brevi elementi, suggeriscono dunque che la detective-story esaurisce una parte, ma non tutti gli interrogativi sollevati dal romanzo (del resto, un’attenta analisi delle voci narranti consente di scoprire il colpevole basandosi su una semplice lettura dell’indice: poiché, ancora una volta seguendo la morale del tempo, nessuna istanza di voce è data a chi non si mostra degno di fiducia morale). Un romanzo che aspira a giocare, esplicitamente, anche con altri modi e generi. Da quelli della letteratura fantastica (non a caso inaugurata proprio da Poe in quegli stessi anni) alla consueta (se pure qui solo accennata) componente di Bildung (vera forma simbolica dell’Ottocento), a elementi del romanzo di famiglia tipico del periodo vittoriano (ancora una volta un segreto, nascosto e rimosso cova proprio nel cuore del simbolo stesso, appunto la Family Mansion, della società vittoriana). Non mancano allusioni anche ad altri referenti culturali del tempo: la dipendenza da oppio (con la citazione esplicita di De Quincey), l’evoluzione degli studi sulla psiche (che, superata la fase del semplice magnetismo, si avviano ad anticipare lo studio dell’inconscio come linguaggio a sé stante, e le stesse scoperte freudiane). Da questo punto di vista – seguendo un principio che sembra evocare Poe esplicitamente – non a caso alla figura del detective razionale, tutto deduzione e indizi, si affianca nella storia un altro deus-ex-machina, nella figura del misterioso assistente del dottore, malato mortalmente, reietto della società, dedito all’oppio, eppure scienziato di valore e intuitivo sperimentatore della complessa fisiologia (anche psichica) umana. Se il sergente Cuff rappresenta dunque la voce della ragione, che tutto sottopone a verifica, Ezra Jennins rappresenta invece (fin dalla sua descrizione, un po’ soprannaturale, un po’ perturbante), il sesto e altro senso (che però – ed è questo uno degli elementi più significativi del romanzo – può essere anche esso studiato con rigore scientifico): e soltanto con l’unione di entrambi questi metodi (come dire: mettendo insieme il Poe del commissario Dupin con quello della Caduta di Casa Usher) si può arrivare alla soluzione di quel grande e più alto mistero che è l’esistenza umana.
E, attingendo al serbatoio della sua più profonda passione romanzesca, la ‘povna contribuisce anche questa settimana al venerdì librario.