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La poesia della passione nelle donne di Ulisse

Creato il 22 febbraio 2012 da Upilmagazine @UpilMagazine

Un magnifico libricino, stampato ma tenuto “nascosto”, ci racconta Ulisse in un modo poetico e speciale. Attraverso gli occhi, il cuore, le lacrime delle donne che lo hanno incontrato, Alessandra Manieri ritma il percorso faticoso di Ulisse verso Itaca.
Dieci anni di mare, avventure, tragedie ed incontri condensati tra i versi d’amore e sofferenza delle protagoniste nelle tormentate tappe del navigatore per antonomasia verso la sua piccola isola jonica.
Da Circe, la maga seduttrice, all’amata madre Anticlea, dall’amante ninfa Calipso alla principessa innamorata Nausicaa. Fino alla sposa fedelissima Penelope, per 20 anni regina senza re e marito. Che gli dedica il ritratto più intenso e commovente, consapevole della profezia di Tiresia per la quale Ulisse un giorno, presto, riprenderà ancora la via del mare e della solitudine per entrambi.


Penelope, la sposa

Davvero pensavi
che anch'io
avrei bevuto i tuoi inganni
giungendo, a me ignoto,
al palazzo,
nascosto dai cenci, dagli anni,
con aridi solchi tracciati sul viso
dal tempo invidioso
e dal mare!
Ti svelasti dapprima
alla serva,
al porcaio, al bovaro,
in me non nutristi fiducia
o volesti serbarmi alla fine
quale nobile preda di guerra.
Eri sparito, scortato dai flutti,
a inseguire la gloria
e l'amore
nei letti di donne straniere.
Io qui,
per anni custode fedele
del talamo
e della voce del popolo,
a vegliare gli anziani parenti,
il tenero figlio che cresce
e allevarlo nel culto del padre;
a fuggire gli sguardi adulanti
e gli inviti dei sogni,
le dolci lusinghe
di giovane vita compagne,
fedele ad un'ombra.
Vigile, fiera e costante
di giorno
intenta a filar la mia tela
intorno a quel figlio comune,
la notte travolta dal pianto.
Vent'anni
a cercare uno sguardo
e a negarlo,
costretta a bruciare
nel petto
parole mai dette
in atroce, glaciale silenzio:
sono queste le prime
a cui dono la vita.
Se spero conforto in un sogno
più triste il risveglio
e più amaro
e bianchi tanti fili
tra i capelli
e stanche ormai le pieghe
lungo il viso.
Anch'io, quante volte, scrutavo
l'orizzonte lontano,
talvolta cercando
quell'unico punto che ha senso
in un mare infinito,
più spesso sognando
di sparire io stessa
lasciandomi tutto alle spalle…
Ma questo è il mio posto
e magnanima sorte la mia
di madre, di sposa di re!
Una donna in mente rivolga
soltanto vacui pensieri,
che il fuoco sia acceso
e vanto la casa e le vesti
e calda la stanza nuziale.
E poi attenda
fedele e paziente
lo sposo, al ritorno.
Solo così Itaca è salva!
Gloria la guerra,
eroica la lotta con l'onde
onore il lavoro
che reca lontani,
pur fonte di ansia e d'affanni.
Curare la casa,
generare dei figli
e allevarli
sani, con saldi valori
questo è soltanto dovere di donna!
Ma alfine, quell'uomo
rincorso nei sogni
è tornato;
pur se in lacere vesti
è quello lo sguardo
per anni indagato ed atteso
ché ancora turba e sconvolge.
E quando la tenebra
avvolge il palazzo
raggiungo la sala,
lo accolgo su un seggio
ben levigato,
gli pongo, falso mendico,
il cuore nel grembo.
Lui versa parole
e quella la voce
suadente
che sempre la sera
mi sfiora l'orecchio
possente
per nulla fiaccata
dalle pene e dagli anni.
Da Creta proviene,
egli dice,
inventa una stirpe,
dà segni sicuri
di conoscere Ulisse
descrivendo con cura le vesti
che io stessa,
un tempo, gli diedi.
Osa pure ferirmi l'orgoglio,
sottile vendetta su sposa
da tanti insidiata:
simile a un dio lo descrive,
da molte donne fu amato.
E pianto
pianto copioso io verso
dalle tremule ciglia
come neve
che in fiumi si scioglie:
l'affanno costretto
si sfoga ed esplode,
la trepida attesa, umiliata,
ancora è messa alla prova
e ferita,
e non dal vero nemico
che tende insidie nel regno.
Tu, mio atteso signore
mia sola speranza
ancora maestro d'inganni
vestito di stracci
qual giudice fermo e impietoso,
vagli quel pianto
se è falso o sincero
e duro è il tuo sguardo
ed asciutto
come il corno o l'acciaio.
Ancora cerco una breccia,
narrando il mio sogno:
un'aquila enorme,
adunca nel becco,
s'avventa, piombando dal monte,
sull'oche che in casa
mi beccano il grano.
L'aquila parla, visione verace:
è il mio sposo, è tornato,
gioia alla casa
rovina e strage ai nemici.
Ti chiedo di aprire
i segreti del sogno
e spero tu dica: eccomi torno,
il tuo sposo io sono,
gioia alla casa
rovina e strage ai nemici.
Ma taci
né cedi ai singhiozzi
e non fremi neanche sentendo
che è giunta l'ora funesta,
ch’è tempo ch'io m’allontani
dalla casa d'Ulisse.
M'imponi alla fine
di porre il mio piano
in grembo a un estraneo,
un mendico:
propongo la prova dell'arco
e l’approvi,
la implori al più presto
tremendo bugiardo
mia sola speranza.
Io stessa, allora, mi reco
nell'ultima stanza
che accoglie i tesori del re,
stacco l'arco dal chiodo,
la sala raggiungo
con la faretra ricolma di frecce.
E quando nessuno
degli avidi Proci
riesce a piegare l'arco ricurvo
e nemmeno il figlio, Telemaco,
allora io impongo
che anche il mendico abbia l’arco
e a tenderlo provi
svelando il proprio vigore.
Quanto poi avviene là dentro
chiusi i battenti
nella sala del trono
non vedo
ché il figlio m'impone d'uscire
e su nella stanza, fremente
e travolta dal pianto
nel sonno m'immergo
ignorando la sorte futura…
…No, tu non sali di corsa i gradini
a sfondare la porta,
a donarmi in segreto
l'abbraccio sognato vent'anni,
a baciarmi il capo, le mani,
a cercarmi, a trovarmi.
Attendi di sotto
mandando la serva
che annuncia il ritorno
la strage compiuta
finiti i vent'anni d'attesa
e giunto il momento vissuto,
cercato, inventato
ogni notte, ogni giorno.
È fiamma che scioglie
le membra ed il cuore,
è ghiaccio
come di morte
che arresta la mente e i pensieri.
Di là della soglia di pietra
odore di zolfo e di fuoco,
massacro di giovani corpi
la mia festa di nozze.
E tu, gli occhi bassi,
ancora vestito di stracci,
senti i miei passi
nemmeno levando lo sguardo
e aspetti in silenzio.
Venire, gettarmi ai tuoi piedi,
davanti alle ancelle,
la schiava al suo re,
cercare il tuo abbraccio,
baciarti il capo e le mani?
Da solo hai punito i superbi
e ripreso il tuo regno
ma sola, io pure,
per te ho serbato il palazzo,
vegliato gli anziani parenti
e il figlio che cresce…
O figlio, davvero è una pietra
il mio cuore
o è fiume impetuoso
davanti a una diga,
a muro d'orgoglio, imponente,
di menti che pensano troppo,
distanti vent'anni?
Due rocce vicine.
Dev'essere mia l'ultima sfida,
e non riesci a sottrarti.
T'indago i ricordi,
se i nostri segreti ancora conservi
o se giungi cambiato, diverso,
l'antico affetto rimosso.
Ma è lì, tu lo sai,
il letto nuziale,
davvero al suolo piantato
con salde radici,
che un tempo forgiasti
scolpendo un tronco d'ulivo
enorme, maestoso,
intorno innalzando le mura del talamo.
L'antico ricordo
frantuma l'orgoglio,
discioglie l'affanno.
Due vite riunite in vecchiaia
ché invidia venne agli dei
di un giovane, magico amore.
Ti cerco e mi cerchi
di tutto incuranti alla fine,
ti trovo
un istante d'eterno
mi trovi
travolti nel talamo
davvero al suolo piantato
con salde radici.
Poi ancora, per sempre, ti perdo
e mi perdo di nuovo.


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