Non ho i rasta giamaicani, peró neanche la riga di lato da bravo ragazzo. Non indosso giacca e cravatta ma neppure jeans strappati e canottiere bucherellate. Non ho le pupille dilatate come Toto Schillaci, modi da duro, tatuaggi in vista o la pelle nera.
Mi muovo con circospezione, assonnato cerco il mio posto a sedere, accomodo il mio esiguo bagaglio nel vano superiore e sprofondo sulle comode poltrone dei treni spagnoli. Indosso grandi cuffie nere, ascolto musica a basso volume – grandi classici come Pink Floyd o rilassanti schitarrate alla Ben Harper – e quasi mai riesco ad addormentarmi. Intorno a me, qualche manager gía in piena attività con il suo portatile, eleganti signore che chattano con le loro Blackberry, e qualche giovane assopito in posizioni improbabili.
Poi passano due ragazzi che sembrano usciti dal catalogo di Decathlon, accessoriati con marsupio e scarpe da footing; attraversano il vagone guardandosi attentamente intorno. A quel punto so che torneranno, e che il prescelto saró io. Quasi sempre il mio pronostico si avvera e distintivo alla mano mi chiedono di esibire i documenti che io ho, prontamente, preparato dopo averli visti passare. Un rapido sguardo alla stropicciata carta d’identitá italiana, qualche domandina di routine sul mio lavoro e sui motivi del mio viaggio, una battutina su Berlusconi (opzionale) e tanti saluti.
Il copione si ripete, quasi settimanalmente, durante i miei viaggi per la Spagna per un’intervista o un reportage.
Sto iniziando a dubitare della mia immagine..e dello spirito d’osservazione della “Policia” spagnola.