Ogni volta che vedo un film americano sull’argomento, mi torna in mente (e sorrido) il fantastico leimotiv del Pierferdinando Casini interpretato, con tanto di cadenza bolognese, dal grandissimo Neri Marcorè.
In questo senso Le idi di marzo non sorprende e non delude. Se ci aspettavamo l’ennesima dimostrazione che la politica non sia un mondo per gli ingenui e i puri, avremo esattamente questo e nulla più: l’ennesima dimostrazione che la politica non è un mondo per gli ingenui e i puri. L’avevo già pensato per I colori della vittoria di Mike Nichols, la cui morale non differisce granché da quella del film di Clooney.
E allora perché dovremmo andare a vedere un prodotto che non ci dà nessun sussulto, nessuna novità, niente che già non sapessimo?
Innanzitutto perché Le idi di marzo (The ides of March, USA 2011, di George Clooney, drammatico) ha una solida struttura narrativa, ben pensata, ben architettata, ben girata, con una colonna sonora inquietante ma non invadente: una macchina a orologeria di quelle che ti fanno mangiare le unghie per tutto il tempo. Non a caso è tratto dal dramma teatrale Farragut North di Beau Willimon, tra gli sceneggiatori insieme al regista stesso.
Le inquadrature però non risentono della staticità spesso tipica dei film di origine teatrale, e l’inquadratura usa giochi di luce e di ombra che riescono a spiegare alla perfezione la distanza tra immagine pubblica e realtà privata che Clooney vuole ribadire: la scena iniziale e quella finale da questo punto di vista sono la perfetta cornice della vicenda. T
emevo che nel finale il protagonista avrebbe guardato in macchina e detto qualcosa agli spettatori (quel gioco di complicità che ormai si vede spesso, specialmente nelle commedie americane, e che ormai è insopportabile) ma per fortuna l’amico George non ha avuto questa caduta di stile: il momento è drammatico, Stephen siamo noi, certo, ma non c’è bisogno di ribadirlo – lo sappiamo già.
Poi perché è recitato benissimo, e qui non sto a fare l’ennesimo panegirico dell’attore del momento, Ryan Gosling, soltanto perché non mi piace ribadire l’ovvio: cioè che questo giovane canadese dai lineamenti irregolari è perfetto per i ruoli tormentati che spesso gli danno, ottimo nei primi piani, affascinante per tutti, un po’ come il suo personaggio, un addetto stampa che catalizzando l’attenzione di tutti finisce per mettersi tutti contro, incluso l’uomo che ammirava di più al mondo.
Perfetto anche Paul Giamatti per una volta non nel ruolo del buono-ingenuo bensì del cattivo che poi così cattivo non è, semplicemente deve fare gli interessi del suo candidato: se non puoi avere quello che desideri, almeno fai sì che non lo abbia neanche il tuo avversario.
Elementare, no? Per dire, la marchesa di Merteuil, quando spiegava al visconte di Valmont che avergli fatto lasciare madame de Tourvel era già un tale trionfo da rendere superfluo per lei concederglisi, pur amandolo, scatenava una vendetta ben più sanguinosa, ma si era nel XVIII secolo e il vizio andava punito. Oggi le cose sono cambiate un po’.
Lo stesso vale per Philip Seymour Hoffman, che non posso dire di aver mai visto sbagliare una parte, e veramente c’è di che complimentarsi con Clooney regista (di per sé – qui come altrove - attore gradevole ma non eccelso, e soprattutto privo delle sfumature dei suoi coprotagonisti: si veda la scena pre-finale in cucina) per scelte così felici nei ruoli maschili della pellicola.
Un po’ meno azzeccati quelli femminili: la Wood (forse non per colpa sua ma della sceneggiatura) bamboleggia troppo nella prima parte – migliorando quando inizia il dramma vero e proprio - e ha un doppiaggio insopportabilmente anni ’50; al posto di Marisa Tomei, brava ma qui scialba e invecchiata nel ruolo di una vecchia volpe del giornalismo, avrei preferito una qualche caratterista sconosciuta ma incisiva nel ruolo.
Irriconoscibile (al punto che me ne sono accorta solo stamani controllando il cast su Imbd) il Jeffrey Wright indimenticabile interprete di Basquiat, qui ingrassato, stempiato e laido nel ruolo di un senatore alle cui mire infine l’onesto governatore Morris dovrà piegarsi se vuole vincere le primarie.
E siccome tutti vogliono qualcosa, a questo mondo, tutti o quasi otterranno quello che vogliono, al solito prezzo concordato a suo tempo tra Faust e Mefistofele. Impossibile stupirsene ancora, quello che stupisce semmai è che la cultura popolare Usa ancora ne sia ossessionata, ancora non abbia metabolizzato l’impossibilità di essere completamente innocenti, e sì che ce lo ripetono fin dalla Genesi. Di sicuro ne è ossessionato Clooney, che alla politica ha dedicato finora i suoi film più riusciti (L’uomo che fissava le capre e Good night & good luck sono splendidi).
Così come appare ancora ossessionata (non è cambiato nulla dai primi western) dal sapore amaro della vendetta, vendetta che anche lo Stephen del film metterà in atto, senza riuscire a goderne più di tanto, perché sarebbe impossibile trarre soddisfazione da un Paul che viene licenziato sapendo di non aver svenduto i suoi ideali e di trovare comunque un paracadute in qualche società di consulenza; o da un Morris felice di arrivare al potere anche a prezzo di riassumere un uomo di cui non si fida più; o infine da un Tom Duffy che lo ha sprezzantemente rifiutato per il solo motivo che può permetterselo, che gli è superfluo, che si è già servito di lui una volta e ora non serve più.
Tanto più che nella sua intelligenza, ora Stephen sa: sa come stanno le cose nel suo mondo, sa di essere a sua volta colpevole di atti, omissioni bugie: ha svenduto la sua dignità e dovrà continuare come se niente fosse, passando dall’entusiasmo reale della prima scena a quello recitato dell’ultima.
Quella che sembra una sconfitta personale (aver perso fiducia nel suo candidato; essere messo alla porta; essere stato usato dall’avversario; aver causato la morte di una ragazza) diventa una vittoria politica (Stephen si ritrova con il coltello dalla parte del manico, e lo userà; Morris verrà eletto); che a sua volta è di fatto una sconfitta per tutti (Stephen non può più credere in Morris e Morris non può più fidarsi di Stephen).
D’altronde, come si sa, nemmeno a Bruto portò fortuna l’aver pugnalato Cesare.
La vera tragedia del protagonista è accorgersi che, come lui ha frettolosamente pagato per il suo silenzio e buttato via la stagista zoccola e minorenne che era incinta del governatore, così gli altri faranno con lui.
Nella società degli uomini (altro gran bel film che però parlava di lotta per la sopravvivenza nelle compagnie private, e non in politica) le donne sono prodotti a breve scadenza, ma anche se sei un uomo sei utile sempre, indispensabile mai; e se diventi scomodo, ci metti un attimo a finire nella spazzatura. Ieri eri un genio, oggi sei roba avariata.
Noi confrontiamo con la società in cui viviamo, constatiamo e ci rimettiamo il piumino, per uscire in un gelido dicembre che però sembra aria celestiale rispetto alla claustrofobia del darwinismo che abbiamo appena visto rappresentato con tanta convinzione.
Una curiosità: tra i produttori esecutivi figura Leonardo Di Caprio, che evidentemente ha creduto nel progetto (anche perché all’inizio il ruolo del protagonista doveva essere suo).
Quanti registi, sceneggiatori e attori democratici che ci sono a Hollywood, da Robert Redford a oggi... quanti di loro hanno creduto nella coppia Clinton-Rodham, cui occhieggiano sia questo film che il già citato I colori della vittoria!
Quanti, di nuovo, si sono estasiati, sdilinquiti, illusi più di recente per Obama! Il quale forse non avrà scandaletti sessuali nell’armadio o sotto la scrivania, ma di certo i miracoli non li sta facendo neppure lui, anzi, per dirla tutta, a dispetto del Nobel per la Pace improvvidamente assegnatogli quando ancora non aveva avuto modo di dimostrare nulla, si sta rivelando impotente, insapore e prigioniero delle lobby che fanno sempre sembrare i presidenti Usa democratici dei fantocci che, a differenza di quelli repubblicani, non aumentano neanche il Pil del settore armamenti.
Frasi celebri:
Non si tratta di quanto sei bravo. Si tratta di lealtà.
Se non impariamo a giocare sporco anche noi Democratici, vinceranno sempre i Repubblicani.
Io credo nella costituzione americana.