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La potenza di fuoco di Silvio e la riservatezza di Mario

Creato il 14 novembre 2011 da Massimoconsorti @massimoconsorti

La potenza di fuoco di Silvio, la riservatezza di Mario Monti e il bisogno estremo di normalità. A breve sugli schermi di Natale Se continuiamo a parlare di Silvio, e non siamo entrati ancora nel merito dell’”era Monti”, è perché, evidentemente, lo riteniamo un pericolo dal quale tutelarci assumendo una overdose preventiva di anticorpi. La giornata di ieri è stata per molti versi significativa, emblematica della potenza di fuoco che l’imperatore in aspettativa ha ancora a disposizione. Due esempi. Scrive una lettera al fascista tutto d’un pezzo Francesco Storace per dirgli di tenersi pronto a un’entrata prossima futura nel governo del paese e, come d’incanto, quattro-cinquecento giovanotti ultras della Lazio (non hanno avuto il tempo manco di cambiarsi il cappellino), scendono in piazza con tanto di tricolore per gridare “al voto al voto” e “forza Silvio”. All’inizio li avevamo scambiati per aspiranti tronisti o figuranti di amici, ma poi ci siamo resi conto che erano solo quattro fascisti inviati da Cicciobello a far da contraltare ai manifestanti gioiosi del giorno prima. Riconoscibili dal ghigno assatanato in perfetto stile repubblichino, tanto da sembrare appena usciti dai fotogrammi di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, i fascitelli di ieri hanno seguito il percorso del Dux da Palazzo Grazioli a Palazzo Chigi non facendogli mancare il sostegno vocale e il loro appoggio morale e, quello che ci ha colpito di più, è stato il fatto che non abbiamo visto un anziano, un pensionato, una faccia da operaio o ragazze in jeans e felpa ma solo coattoni delle peggiori periferie di Roma: mezza piotta a testa e il gioco è fatto. Il secondo esempio è strettamente collegato all’ora della messa in onda del messaggio urbi et orbi di Silvio dal centro di produzione televisiva di Palazzo Chigi, la stessa dell’ingresso di Mario Monti al Quirinale per ricevere l’incarico da Napolitano. Silvio, insomma, ha voluto rubare la scena al presidente del consiglio incaricato inviando ai tg la summa del suo non pensiero politico e quasi teologico (dove il “teo” è un attributo riferito alla sua persona), nello stesso momento in cui stava nascendo un’altra Italia. Figlio di un copia/incolla del discorso fatto nel 1994 per annunciare la sua discesa in campo, l’appello alla nazione di Silvio ha riassunto in un colpo solo tutte le banalità di un regime che ha lasciato agli italiani, invece dei sogni e dei miracoli annunciati, un cumulo di macerie tale e quale al centro storico dell’Aquila in cui imperano solo i ponteggi. Il fatto è che Silvio crede di essere stato un grande statista in grado di dare ancora molto al paese, quando non si è reso conto di rappresentare solo l’antico, il vecchio, l’obsoleto, e un passato impossibile da dimenticare. A essere andato in crisi è stato il suo modello di nazione e l’aver continuato a rappresentare quello stereotipo di “ricco sfacciato" e di "self made man” che pure aveva fatto il suo successo. Mentre all’inizio Silvio si era posto come un barthesiano “mito inarrivabile”, con il passare del tempo la sua ricchezza ostentata, la vita piena di ragazze bellissime, di privilegi inimmaginabili, di ville e castelli sontuosi ha procurato una crisi di rigetto profonda nella popolazione alle prese con le bollette da pagare, la cassa integrazione, un futuro senza prospettive per i figli. Se all’inizio della sua avventura Silvio aveva fatto capire che tutti ce l’avrebbero potuta fare proprio come lui, con il passare del tempo gli italiani hanno preso atto che si trattava solo di un abbaglio e che, mentre lui triplicava il patrimonio personale suo e delle sue imprese, il ceto medio stava lentamente scivolando verso la povertà. Il sogno annunciato si è trasformato in breve tempo nell’incubo delle promesse mancate. “In dieci giorni libererò Napoli dalla monnezza”. Incurante di quanto accaduto al governo Prodi e della lezione hitleriana dell’attacco alla Russia, Silvio è scivolato sulla monnezza invece che sul ghiaccio di Stalingrado: i giorni sono passati e i sacchetti nauseabondi sono rimasti al loro posto. “Ricostruiremo L’Aquila a breve”. Per il centro storico del capoluogo abruzzese si aggirano ancora i gatti alla ricerca disperata di cibo fra le macerie. Arrivato nei giorni del terremoto al massimo della sua popolarità, Silvio è andato in crisi di consensi quando la moglie gli ha detto “Io me ne vado, fatti curare”, si è inventato improbabili parentele di mignotte minorenni con capi di stato esteri, sono apparse sui giornali le imbarazzanti intercettazioni telefoniche con Masi, Innocenzi, Lavitola e le ragazze dal culo caldo, e open 24 hours, dell’Olgettina. Il tutto, ovviamente, con la benedizione di santa madre chiesa che ha tentato di salvarlo in tutti i modi contestualizzando perfino le bestemmie sparate come un camallo del porto di Genova in tivvù. Il top delle menzogne e dei sogni tanto al chilo, Silvio lo ha però toccato quando ha detto: “La crisi non investirà l’Italia, anzi, è già passata. Non ve ne siete resi conto? Per forza, siamo stati bravi a gestirla senza farvene accorgere”. Insomma, mentre le imprese fuggivano all’estero, si perdevano posti di lavoro come piovesse, le ore di cassa integrazione aumentavano paurosamente Silvio andava dicendo che l’Italia era il paese con il numero più alto di telefonini pro capite. Che è poi la stessa favola dei “ristoranti pieni” di questi giorni. Il nostro non vuole essere un esercizio di retorica né il voler testardamente riportare alla luce fatti che suonano ancora come ingiurie alla civiltà e alla intelligenza del paese, ma non ce la sentiamo di liquidare l’argomento Berlusconi come ha tentato di fare ieri sera Pierfy Casini da Fazio: “Il problema era Berlusconi? Berlusconi non c’è più guardiamo avanti”. Eh no, caro acchiappafarfalle dei nostri stivali, non è vero che Berlusconi non c’è più e non è vero che, con Silvio in aspettativa, i berluschini non continuino a fare danni. Non vogliamo fare i menagrami né gli insensibili né essere inseriti fra coloro che non hanno gioito, seppur intimamente, della dipartita politica di Silvio, ma permetteteci di rinviare i festeggiamenti a un minuto dopo la lettura della sentenza del processo Mills. Con una condanna Silvio sarebbe interdetto dai pubblici uffici. Quello è il momento che aspettiamo e che Silvio teme più di mille Ruby e un esercito di mignotte ricattatrici a canone fisso. Non c’è più il legittimo impedimento e, a meno di colpi di mano del governo Monti, non ci sarà neppure la prescrizione breve. Ancora qualche settimana e Silvio uscirà definitivamente dalla vita pubblica italiana, il fatto che resti a far danni diventando il presidente di Forza Gnocca non ci interessa. Il processo Mills si. Poi, via ai festeggiamenti.


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