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La preferenza ai punti di sospensione

Da Marcofre

Il romanziere normale non dibatte: spera di far vedere, di rivelare.

È una frase di Eudora Welty che mi ha spinto a una riflessione piuttosto semplice.

Ci sono molti tipi di lettori al mondo, e anzi ciascuno di noi probabilmente ne contiene differenti, che balzano fuori in certi momenti della vita, o convivono pacificamente l’uno accanto all’altro senza farsi mai la guerra.

Ma ce ne è uno che torna alla carica con puntualità, soprattutto quando le cose cambiano, i tempi si fanno duri.

Costui vorrebbe che l’autore di un certo spessore (vale a dire: ha pubblicato e riscuote consensi), scrivesse cose impegnate. Lo richiede il momento storico, la gente, il mondo.

C’è un formidabile equivoco che fa scattare questa richiesta: dimenticarsi che la narrativa è il territorio della libertà. Se il lettore ha il diritto di evitare certi autori, o di interrompere la lettura di un libro perché noioso, esiste accanto un altro diritto.

L’autore scrive quello che vuole, e non deve spiegare perché una storia è così e non cosà. In fondo, chi legge può liberarsi del libro se non lo trova interessante, vero? Per quale motivo dovrei, come autore, scrivere quello che i tempi richiedono? Chi può dire che richiedano davvero l’impegno?

I tempi richiedono storie di valore. Naturalmente, esiste “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, un romanzo contro le guerre. Però non è una storia impegnata, perché le sue qualità sono tali (vi si respira Arte), che permettono al libro di arrivare sino a noi. Eppure è quasi trascorso un secolo da quel conflitto.

L’Iliade gronda sangue: è diseducativo. Però siamo qui a leggerlo. A commentarlo e a proclamarlo come uno dei primi esempi di grande letteratura occidentale (ammesso che certe etichette abbiano davvero uno scopo, e un senso).

Ma alla domanda diretta: “Perché lei non scrive di questo o di quello”, la risposta deve essere: “Perché faccio quello che voglio”.

Il primo dovere di chi scrive è proporre qualcosa di valore, che dia del tu all’Arte. Se poi riesce anche a confezionare un’opera che contenga una denuncia sociale, bene. Ma non è un obbligo, un dovere. L’unico dovere che si ha se si scrive, è di farlo al meglio delle proprie possibilità, e basta.

La narrativa non deve fornire risposte. Quelle sono da cercarsi nella politica, nell’impegno attivo che però non deve essere travasato sulla pagina. La natura della scrittura è troppo anarchica per riuscire sul serio a essere convincente quando sale in cattedra e spiega chi sono i cattivi, e dove sono i buoni.

In un certo senso, si ritrae dal dibattito non perché ne abbia orrore o schifo, ma perché non è affar suo. È qualcosa che molti non accettano: come diavolo si fa a scrivere di uomini e donne e ignorare le loro difficoltà pratiche, e non scendere al loro fianco? E reclamare più giustizia?

La narrativa proprio perché è a fianco di tutti, preferisce far intravedere le miserie, che indicare orizzonti di gloria, oppure soluzioni. Affianca l’essere umano zeppo di contraddizioni, e lo accompagna. E ci ricorda che sino alla fine, affronterà sempre ciò che crea dubbio o scandalo, perché preferisce al punto, i puntini di sospensione…


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