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La prova

Creato il 24 luglio 2011 da Albix

giustiziaSuccede spesso che i miei studenti, venuti a sapere che svolgo la professione di avvocato, mi chiedano come possa un avvocato sostenere la difesa di un imputato colpevole.

A mia volta gli chiedo quando è che essi ritengono un iumputato senz’altro colpevole.

“Quando ci sono le prove” mi rispondono gli intraprendenti studenti. I più arditi si spingono ad affermare che quando ci sono le prove è inutile sprecare tempo e soldi nel processo: conviene subito eseguire la pena (quasi sempre questi studenti dalle maniere spicce e dall’approccio pratico (io lo chiamo americano, ma non è un’offesa; mi fanno pensare al far-west, a tex willer, ma anche alla recente vicenda di Dominique Strauss-Khan) sono favorevoli alla pena di morte, con pubblica esecuzione.

Naturalmente non cerco mai di imporre il mio punto di vista (io sono contrario alla pena di morte); cerco piuttosto di ragionare, discutere, analizzare, ma sempre rispettando le loro idee.

Talvolta riesco ad incrinare le loro certezze raccontando degli episodi inerenti a cause che ho svolto personalmente (tacendo o simulando nomi di persone e luoghi) o che magari  mi è   capitato di studiare sugli annuari (oggi reperibili su immense banche dati di agevole consultazione).

Spesso racconto uno dei casi giudiziari che ebbi modo di seguire quando facevo la pratica da avvocato.

Ecco la storia: “ Una vecchia signora, che viveva da sola, non avendo figli, nè altri parenti prossimi, aveva fatto testamento a favore di un suo nipote che l’accudiva in tutto e per tutto. La signora era molto ricca ma all’epoca non usava assumere badanti o maggiordomi filippini; la signora era autosufficiente, amava vivere da sola (il nipote l’avrebbe presa volenieri a casa sua ma lei voleva stare, da sola e indipendente,  nella sua bella casa) e in ogni caso, il nipote provvedeva ad ogni sua necessità e non mancava giorno, avendo perfino le chiavi di casa, che non andasse a trovarla o quantomeno la chiamasse telefonicamente.

Un sabato mattina, come al solito, l’affezionato nipote si recò dalla zia per fare insieme la lista delle cose da comprare al vicino mercato civico della città; entrato in casa con le sue chiavi prese a chiamare  la zia; nessuno però rispondeva ai suoi richiami; si avvicinò al bagno e niente; si avviò verso la cucina e con il piede colpì un oggetto che era per terra. Istintivamente lo raccolse: era un coltello intriso di sangue; con un cattivo presentimento il giovane   vide la povera zia riversa nel corridoio in una pozza di sangue. Non fece in tempo neppure a chinarsi su di lei che la polizia (chiamata dai vicini, spaventati dalle urla che avevano udito poco prima provenire dall’appartamento) fece irruzione in casa, trovandolo davanti al cadavere con il coltello insanguinato  in mano e una faccia sconvolta.”

Il povero giovane venne naturalmente arrestato e, nonostante la bravura dell’avvocato difensore, la verità processuale che emerse, fu incontrovertibile.

Il verdetto fu un macigno: ergastolo con tre anni di isolamento totale.

Eppure la verità, quella non processuale, era un’altra e ben diversa.

La fortuna volle che qualche anno dopo, il vero assassino ( che in realtà era un ladro ed era entrato per rubare, scappando attraverso i tetti appena commesso il delitto, senza fare in tempo neppure a rubare, spaventato sia dalla reazione della povera vecchia, sia dal rumore della porta che il nipote stava aprendo subito dopo l’accoltellamento ; la circostanza purtroppo, durante il processo, andò contro il nipote; se il ladro avesse fatto in tempo a perpetrare il furto, la circostanza avrebbe infatti confortato la versione sostenuta dal giovane innocente), nel frattempo finito in carcere per scontare una lunga serie di furti e rapine che gli erano piovute addosso tutte in una volta, avendo intrapreso un suo percorso spirituale, assistito dal cappellano delle carceri, si decise a confessare l’orrendo delitto.

La revisione del processò scagionò completamente il povero giovane che potè riacquistare la sua libertà (anche se la sua vita ne rimase comprensibilmente sconvolta).

A questo i più intelligenti tra gli studenti, cominciano a dubitare della bontà delle loro teorie (molto spesso si tratta in realtà di teorie elaborate dai genitori ed apprese quindi in famiglia) e interagiscono con diverse considerazioni.

Di solito però c’è tra loro qualche irriducibile che, volendo comunque avere la sua parte di ragione, continua a sostenere  che almeno di fronte ad un reo confesso, la ghigliottina,  la camera a gas ,  la fucilazione,  l’impiccagione o insomma, la condanna a morte,  in base alla legge del taglione, debba essere eseguita.

Allora  mi sovviene quell’altro caso giudizio, pure realmente accaduto nella mia città, di quell’uomo ricchissimo che avendo commesso un omicidio, convinse un suo dipendente, in cambio di 100 milioni di lire (all’epoca si era negli anni ‘60 e la somma era davvero importante) e di una perpetua assistenza a favore dei parenti più prossimi (moglie e figli) ad assumersi la responsabilità del fatto (l’uomo scontò soltanto 19 anni di carcere perchè dopo la morte del vero assassino, un’altra verità processsuale emerse, grazie all’intelligente lavoro degli avvocati (ma io aggiungo che anche la Procura avrebbe dovuto e potuto lavorare meglio e di più all’epoca della prima verità processuale).

Concludo, a proposito di verità processuali e non, riportando la risposta ad un commento che ho dato a un intelligente e stimolante lettore che mi stuzziccava argutamente e provocatoriamente in calce ad un altro post che parlava di altre verità.

Quando feci l’esame da avvocato   il presidente della commissione, dopo che i singoli commissari avevano finito di interrogarmi in diritto civile, penale, amministrativo, ecclesiastico, internazionale  e nelle due procedure principali allora in auge  mi chiese cosa mi immaginavo di provare nel mio animo, da futuro avvocato, di fronte ad un imputato che mi avesse confidato la sua colpevolezza: un sentimento di vergogna, per essere costretto a sostenere la menzogna del mio cliente e comunque per essere costretto a difendere un reo oppure no. All’epoca ero ancora infarcito delle teorie sul libero arbitrio e delle teorie sociologiche che attribuiscono la colpevolezza degli atti umani, soprattutto in materia penale, non alle singole persone che li pongono in essere, ma bensì al sistema socio-economico che, attraverso i suoi modelli repressivo-pedagocici e per mezzo dell’iniqua distribuzione della ricchezza, provocano  nell’individuo un sentimento di rivalsa e di inadeguatezza di fronte alle norme prescrittive del comportamento, tali da condurre in ogni caso alla non colpevolezza dell’imputato. Seppure in maniera contorta, la svangai, per così dire. In realtà quel presidente non aderiva affatto a quelle teorie ma mi disse, dando il semaforo verde alla mia promozione, che io ero costretto non solo a mantenere il segreto sulla colpevolezza del mio assistito, ma dovevo fare quanto in mio potere per farlo assolvere sulla base delle norme di diritto positivo esistenti e non sulle base di fumose teorie sociologiche. Quanto al piano morale, concluse dicendo che  la verità da ricercare nel processo è quella processuale, del tutto separata e differente da quella morale, laica, religiosa o filosofica che definir la si voglia. Nello svolgimento della carriera professionale ho avuto modo di appurare quanto sia vera l’affermazione che le diverse verità (quella processuale e quella morale in particolare) raramente coincidono nella sentenza vergata alla fine di un giudizio, soprattutto in Italia dove al magistrato è fatto obbligo di motivare la sentenza sulla base della legislazione vigente (e non sul piano dell’equità).”


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