Budapest, piazza del Museo Ludwig
Budapest non è caotica. Ha vie di grande traffico, abituata, come è stata, già dalle sue origini, al commercio, agli scambi, a trovare i suoi approdi lontani. Ma non fai proprio fatica ad avere la tua quiete. Se lo vuoi, senti il silenzio delle case e, talvolta, il parlottare delle persone.
La città ha una sua tranquillità profonda, ricreativa, soporifera. Come se il sonno ti aiutasse in un imprevisto ristoro, dopo un lungo viaggio caotico per le strade di un Mezzogiorno di urla e di confusione. Qui siamo all’incrocio dell’Oriente europeo, ai confini con la vecchia e scomparsa Unione sovietica, del mito, purtroppo non romantico, del Novecento. Dove si innalzarono robuste muraglie contro la barbarie e il genocidio e dove il tributo versato al sonno della ragione fu altissimo. Basti pensare ai quattrocentomila ebrei ungheresi deportati nei campi di sterminio nazisti.
Budapest è oggi alla ricerca della sua strada di capitale di un Paese che si è sentito per troppo tempo smembrato, a rischio di rarefazione, sotto l’impatto di un capitalismo che l’ha invasa nelle viscere più profonde, con i suoi imponenti mercati, i suoi hotel, le sue banche, le sue imprese, e i suoi uomini d’affari sparsi per tutto il mondo. Ma il suo fascino è quello primordiale dei tempi dell’impero austro-ungarico, o quello più ancestrale e nascosto dei tempi del re Stefano, la cui corona, dopo mille anni, è ancora custodita nel palazzo del Parlamento. Vi si alternano nella guardia quattro militari in alta uniforme, ad intervalli regolari di alcune ore.
Apprezzo gli ungheresi per questo legame, perché ci spingono con il richiamo alla loro identità, al rispetto che abbiamo ormai perduto per la nostra storia di italiani.
L’Ungheria è governata da un partito liberale e conservatore capeggiato da Viktor Orban (Fidesz), frutto del crollo del modello comunista e in progressiva ascesa dagli anni della caduta del muro di Berlino, fino alla maggioranza assoluta dei voti ottenuti alle elezioni politiche del 2010. Non dovrà faticare molto per inventare tutte le vie percorribili al modello unico del vecchio socialismo. Certo è che la sinistra ungherese ha tutta la strada davanti in salita, mentre quella degli avversari è abbastanza pianeggiante e non difficilmente in sintonia con la destra europea: nazionalistica, un po’ xenofoba, etnocentrica, tendente a fare quadrato sui propri interessi di casta, a suo modo liberale e spregiudicata finanziariamente, disposta a mettersi in gioco sullo scacchiere della globalizzazione.
Budapest piazza 15 marzo
Per questo hanno ancora qualcosa di magico e di decadente quelle evidenti forme di socializzazione che trovo decisamente presenti nella quotidianità ungherese e a Budapest, in particolare. Non sono solo le grandi piazze che si salvano dalla cementificazione, i piccoli parchi gioco per bambini che ancora spuntano come funghi tra un condominio e l’altro, o la grande presenza di verde e di panchine, di cui si riempiono le ore libere della giornata delle persone comuni, a farmi riflettere. C’è l’efficienza dei servizi pubblici a darti l’idea dell’importanza della collettività. Le poste, le banche, le scuole, i tram, gli uffici comunali funzionano come orologi svizzeri. E funzionano anche i grandi mercati coperti: vere e proprie piccole città dove i privati pagano al Comune i loro canoni per riceverne in cambio locali e infrastrutture. Residui di socialismo? Forse. Ma sarebbe veramente un peccato se dovessero scomparire.
Forse gli stessi ungheresi non l’hanno capito bene fino ad ora. O forse non sono più interessati a certe pagine del passato. Ma non c’è futuro che si possa costruire senza memoria. Me ne rendo sempre più conto frequentando questo Paese. Tra le innumerevoli espressioni della lingua magiara che a grande fatica vado piano piano apprendendo, ce n’è una che mi coglie di sorpresa, quando vado in metropolitana. La voce perentoria dice: “Tessék, vigyàzni! Az ajtòk zàròdnak” (“Si prega di stare attenti! Le porte si stanno chiudendo”). Un avvertimento utile, se non riguarda anche il diritto di sognare.
Giuseppe Casarrubea