Vedere il mondo, cose pericolose da raggiungere, trovarsi l’un l’altro, e sentirsi. Questo lo slogan di Life, un modello e uno stile rimasti indelebili nel tempo, nonostante la chiusura delle pubblicazioni cartacee nel 2007. È difficile condensare in un unico concetto una storia che parla di sfide e coraggio, ma è bello pensare alla metafora di un magazine che si è piegato ad un’inevitabile chiusura ma è riuscito comunque ad aprire tanti occhi alla poetica della vita. A vivere, anche senza più pagine da sfogliare. Strano mondo quello della fotografia. Un microcosmo fatto di persone. Non solo di fotografi. Ma anche dai tecnici che sviluppano le foto. Dagli editori che le scelgono. Dai grafici che le impaginano. Dagli autori che scrivono le didascalie. Tante professionalità. Tanto lavoro. Tante persone. La quintessenza di Life. La quintessenza della vita.
Nel film “I sogni segreti di Walter Mitty” ci sono alcuni messaggi che rappresentano, citando una parola più volte ripetuta nel film, la quintessenza della fotografia. Impressa nella memoria, la sequenza in cui Walter Mitty riesce finalmente a raggiungere il fotografo Sean O’Connell, interpretato da Sean Penn sulla vetta dell’Himalaya, impegnato ad immortalare il leopardo delle nevi e scopre che l’occhio del reporter preferisce fermarsi ad ammirare, senza imprimere su pellicola l’intensità di quell’attimo. Perché se il momento è quello giusto, si può anche scegliere di non scattare. Di non farsi distrarre dell’obiettivo. E diventare parte del momento. Vivere nella sua essenza. La mostra “Le grandi fotografie di LIFE”, inaugurata lo scorso 2 dicembre presso Leica Galerie Milano – in via Mengoni 4 (angolo Piazza Duomo) e aperta fino al 26 gennaio, raccoglie una selezione delle fotografie pubblicate dalla storica rivista americana.
Dal 1936 la rivista creata da Henry Luce ha mostrato ai suoi lettori le immagini del nuovo secolo avvalendosi dei più talentuosi e autorevoli fotogiornalisti che hanno reso memorabili le sue copertine. Fotografia e cinema si sono intersecati, sfiorati, scontrati e completati, nella loro storia. Un rapporto complesso e prolifico in cui queste due arti vicendevolmente si compenetrano e si assorbono, in un continuo gioco di necessità e rimandi. E se riavvolgiamo il nastro e pensiamo ai film la cui trama è strettamente legata al mondo della fotografia, il pensiero corre immediatamente a Blow Up di Michelangelo Antonioni. Un film sulla fotografia che è una vera e propria fotografia della vita londinese. Antonioni mette in scena una pseudo tragedia che ben ricalca l’idea di rappresentazione insita nel concetto fotografico. Il cadavere c’è? Esiste l’oggetto fotografato o è solo un’illusione dei sensi procurata dallo strumento meccanico che dà vita alla rappresentazione? E mentre rispolvero Cenerentola a Parigi, il Musical ispirato al fotografo Richard Avedon, che partecipa al film come consulente degli effetti fotografici, mi balzano alla memoria frammenti de Il favoloso mondo di Amélie, un film emblematico che ha edificato la propria sceneggiatura su solidi riferimenti e richiami fotografici. Di più: usa l’elemento fotografico come substrato poetico per raccontare la Vita. Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile) mette in scena le complesse relazioni che legano l’apparecchio fotografico alla voglia di guardare, ovvero sia spiare. Clint Eastwood ne I ponti di Madison County interpreta un ipotizzato fotografo del National Geographic Magazine che durante un reportage incontra una donna sposata (Francesca Johnson, interpretata da Meryl Streep). Si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare assieme. La fotografia ha il potere di essere l’appassionate collante dei sentimenti del romanzo best seller di Robert James Walzer. Fellini ne La dolce vita consacra l’identità del paparazzo, come sinonimo di fotografo scandalistico, dando spessore ad una figura che si è spenta poi nel tempo. Mentre Oliver Stone con Salvador fa della macchina fotografica la sua arma, un potente mezzo attraverso il quale cercare di rubare immagini dal fronte cariche di angoscia ed orrore, atroci ma preziose. Ognuno racconta la propria storia, il personale riflesso della propria prospettiva. Rievocando il senso di pionieri illustri di esplorazioni urbane come Margaret Bourke-White, con il suo ingombrante ma sensibile obiettivo puntato sulla società americana di colore in fila per il pane per Bread Line during the Louisville flood, o arrampicata per LIFE sulle impalcature in-costruzione del Chrysler Building di New York nei primi anni ‘30, fotografata su un gargoyle da Oscar Graubner.Per buona parte del XX secolo, i fotografi di Life hanno raccontato con le loro immagini ogni aspetto della vita umana, modellando su un’estetica raffinata e incisiva, la cifra stilistica dei servizi, tuttora continua fonte di ispirazione. Rappresentando una bella fetta della memoria fotografica a stelle e strisce che è divenuta poi memoria fotografica del mondo intero e che rivivrà eccezionalmente nella mostra “Le grandi fotografie di LIFE”.
Credit foto: gentile concessione della mostra “Le grandi fotografie di LIFE”.
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net