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“Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia” ha scritto Tiziano Terzani. Facile a dirsi. A dire il vero, tanta gente non ha voglia né l’occasione per guardare un filo d’erba agitato dal vento. È troppo occupata a lottare per sopravvivere. Sta di fatto che la rabbia è il sentimento più diffuso dei nostri tempi, l’emozione più invasiva e pericolosa. Viviamo in un’epoca in cui la rabbia avvelena i cuori dopo avere sconquassato le menti. È pur vero che la rabbia, essendo un’emozione primitiva, è sempre esistita e ha condizionato il cammino individuale e collettivo del genere umano e non solo, ma mi sento di affermare che ultimamente ha raggiunto livelli di guardia. Quanto meno in Italia, dove la gente è molto arrabbiata, anzi incazzata nera. Siamo pentole a pressione, e dobbiamo sperare che la valvola di sicurezza tenga. La rabbia è in buona compagnia, per altro. In psicologia, la si considera il primo elemento di una triade di cui fanno parte anche il disgusto e il disprezzo. Tre emozioni o stati d’animo che oggi accomunano milioni di italiani, incattiviti da come vanno le cose da noi. Cioè male, malissimo. Ora, prima di chiarire le profonde ragioni della nostra rabbia e ipotizzare quali conseguenza potrà avere sul futuro della nostra vita e più in generale dell’Italia, vorrei precisare che essa è la reazione naturale alla frustrazione, sia fisica che psicologica. Tutto nasce, dunque, dal fatto che siamo terribilmente frustrati e quindi ansiosi, impauriti, infelici. La rabbia è soprattutto figlia del dolore, che la frustrazione maschera relativamente. Ci arrabbiamo perché soffriamo per un’infinità di motivi (il principale è l’incapacità di soddisfare i nostri desideri o bisogni) e siamo impotenti di fronte al dolore. Anziché espellere la sofferenza in modo mite, preferiamo farlo con violenza, rabbiosamente. Ci illudiamo, così facendo, di apparire forti, minacciosi, reattivi. È la società stessa a imporci questo comportamento; occorre soffocare il dolore e sfiatarlo attraverso l’aggressività nelle sue molteplici espressioni per non essere giudicati deboli, pusillanimi, perdenti. Tornando alle ragioni per cui gli italiani provano molta rabbia, sono sotto gli occhi di tutti. Viviamo in una nazione irriconoscibile, incapace di uscire da una crisi che è morale, psicologica, culturale e sociale prima d’essere economica. Ci fa rabbia assistere, inermi, allo sfascio della società, alla sua deriva, alla distruzione di tutto ciò che avevamo costruito faticosamente negli anni e che una tempesta senza fine ci sta portando via. Gli italiani sono arrabbiati con la politica canagliesca e i politici, in primis. Sono arrabbiati con l’Europa, con le banche, con i plutocrati che ci hanno privato della sovranità nazionale, delle prospettive di sviluppo, dei sogni. Sono arrabbiati a causa dell’instabilità, della precarietà, dell’insicurezza, della decadenza, della furbizia e dell’arroganza dei potenti. E sono arrabbiati per mille altri motivi, anche futili. La rabbia esplode per ragioni banali, come una partita di calcio o un sorpasso avventato in macchina, per uno sguardo inopportuno a una ragazza in discoteca o una parola di troppo in una discussione. Ormai siamo incapaci di controllare le nostre reazioni, di inibire gli istinti brutali. La nostra sfera emozionale è rovente come un meteorite e il nostro sistema simpatico fragile come una brocca di cristallo. Ma sfogare la rabbia fa bene! – suggerisce una certa corrente di pensiero. Di più, dobbiamo sfogarla, altrimenti ci ammaliamo. Se così fosse, dovremmo essere indulgenti con i cerebrolesi che trasformano gli stadi in arene o mettono a ferro e fuoco le vie cittadine in nome dell’antiglobalismo. Credo che la rabbia non vada covata, ma nemmeno sfogata sugli altri. Uno studio scientifico indica che le persone incapaci di esprimere i propri sentimenti di rabbia sono portati a viverli per un tempo più lungo. In effetti, a volte buttare fuori le scorie emotive è la cosa migliore. Non si corre il rischio di accumulare tossine e ammalarsi. Gli psicologi predicano che la rabbia è funzionale: rimuove l’oggetto frustrante. E spesso produce l’effetto desiderato: eliminare l’ostacolo e sciogliere la frustrazione. Pur tuttavia, quando la rabbia si trasforma in ira, quando la collera diventa violenta, le sue ripercussioni possono essere molto dannose. Mi domando cosa produrrà la nostra rabbia nei prossimi anni. Intanto, essa continua a crescere, a colmare il nostro vaso, e già questo è un brutto segnale. La storia insegna che quando il popolo raggiunge il limite della sopportazione, la sua rabbia produce lo sconvolgimento dell’ordine sociale. In una parola, la rabbia che tracima ed esonda può abbattere i sistemi e gli ordinamenti. Si chiama rivoluzione. Non so se nel futuro dell’Italia c’è una rivoluzione figlia della rabbia. Gli italiani di oggi sono molto diversi da quelli di trenta, quarant’anni fa. Una volta erano gli ideali a fomentare la nostra rabbia, oggi è l’interesse. Temo che nessuno, neanche i più arrabbiati, sia disposto a rischiare il proprio. Se è vero che la rabbia condiziona il nostro futuro, mi è dunque più facile credere che ci renderà sempre meno lucidi e reattivi, più egoisti e prudenti, anziché scuoterci e indurci a una reazione forte, tale da spazzare via il marcio. La nostra rabbia non potrà sconfiggere i nostri nemici, quelli che hanno in animo di trasformarci in servi sempre più sciocchi. Più facilmente darà un’accelerata all’imbarbarimento dei costumi, renderà i rapporti interpersonali sempre meno umani, aumenterà la nostra vulnerabilità alle malattie psicosomatiche. Se la pentola a pressione esploderà, le uniche vittime saranno i nostri amici, i nostri conoscenti, i nostri familiari e naturalmente noi stessi. Detto questo, mi rifugio in un ricordo personale. La mia nonna materna, spentasi serenamente a 104 anni, aveva scoperto un segreto che sarebbe utile tradurre in pratica. Amava canticchiare una vecchia canzone che dice: “Non t’arrabbiare/la vita è breve/perciò si deve/dimenticar. È una ricetta/assai perfetta/che fa campare/fino a tarda età”. Intonò queste note fino al suo ultimo giorno, come se volesse imprimerle nel mio cuore. Non con la sua voce ma con il suo esempio. Che avesse ragione? Se il nostro futuro dipenderà dalla rabbia che accumuliamo nel cuore come se fosse una discarica a cielo aperto, forse è meglio non arrabbiarsi. Non ne vale la pena. C’è un filo di vento, questa mattina. Vado ad ammirare le movenze dei fili d’erba.
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