Magazine Diario personale

La ragazza a tracolla e altri racconti

Da Icalamari @frperinelli

C’è questa mia amica, Lola, che è davvero una buona amica. Non lo avevo capito subito, nemmeno dopo un po’. Ci ho messo una decina di anni a rendermi conto di quanto valga per me.

Una delle cose che mi piacciono di lei è che, pur essendo distante eoni da come sono fatta io, mi ascolta e non mi giudica, se ho bisogno di qualsiasi cosa si fa in quattro e, soprattutto, mi tira su l’umore.

Di me dice che sono pessima, che aveva invitato un’altra amica al mare, durante quell’estate di un paio di lustri fa, e all’aeroporto mi sono presentata io, che ha pure faticato a riconoscermi, tanto ci eravamo frequentate poco prima di allora.

Me lo ricordo come se fosse ieri: le colazioni sulla terrazza panoramica accanto a un cesto pieno di fette biscottate e marmellatine in confezione singola. Mi parlano di lei i ricordi di passeggiate sulle creste delle scogliere sfidate dal maestrale, quando, indomita, col figlio messo a tracolla, i piedini che penzolavano dal marsupio, se ne stava tutta sporta a fotografare gli orridi colpiti dai marosi.

Ma poi, ciascuna appresso alle sue cose durante i dì vacanzieri. Senza vincoli. Lola mi aveva lasciato le chiavi di casa sua a disposizione.

Una volta abbiamo cenato con un’enorme quantità di costosissimi spaghetti all’aragosta, portati a casa dal ristorante in stile doggy bag (see, ma chi li dava al cane?) e riscaldati la sera successiva, che erano ancora più buoni. Talmente tanto che torna ancora l’acquolina se ne riparliamo. E un’altra volta, tardissimo, quando il bambino ormai dormiva della grossa, abbiamo ballato a morte la coreografia di The time warp dal Rocky Horror, il film con Susan Sarandon.

Che bella è sempre stata Susan Sarandon.

Susan-Sarandon

Comunque.  Stamani Lola ha incontrato un tipo che conosciamo entrambe. Dice che ha varcato l’entrata del bar come sempre, tutto impettito, l’ho immaginato con la solita mano nella tasca, ha questa postura da periscopio iperbarico. Lui non osserva, scruta. E se trova qualcosa d’interessante, non ci posa lo sguardo sopra, ma lo penetra d’imperio, con piglio ottuso, quasi militaresco.

Quando parla con me finisco sempre a dover spostare la sua mano via dalla mia spalla o peggio, se sono seduta, dalla coscia. Poveretto, non che lo faccia apposta, ma ha la sindrome del conquistatore. Si crede un vero maschio, e dal suo punto di vista fa bene, che la convinzione è tutto.

Un vero maschio, anche se è alto un metro e trenta, ha ventott’anni portati come settanta, misura centocinquanta di giropanza, e la gallina canta un virtuosissimo gorgheggio lirico sulla vertigine che provano i capelli cadendo giorno per giorno nel gorgo di una calvizie senza appello. E, poiché lavora troppo (è un vero maschio d’altra parte), si lava raramente, finendo per puzzare.

Che a me piacciono eccome gli odori naturali. Amo di più un uomo che diffonde olezzo di fatica, di emotività o di liquida eccitazione, piuttosto che uno posdocciato, lozionato e parimenti deodorato.

Ma il suo odore è un mischio di ascella, capelli grassi, calzini di tre giorni e abiti intrisi ed emananti aria viziata e polvere. Non posso parlarci più di pochi secondi senza avvertire l’impulso di troncare la conversazione.

Il fatto che nonostante tutto lo sopporti non deve trarre in inganno, lo faccio perché è un brav’uomo. E poi ha una fidanzata. Non una ragazza effimera, una compagna o peggio ancora una moglie, che uno così l’avrebbero mollato su due piedi al suo destino, ma una che crederà in lui sempre e comunque, in vista del gran giorno che tarda ad arrivare. Ciò significa che, nel gioco degli specchi delle coppie, lui stesso sente l’obbligo di restare all’altezza delle aspettative di lei, e allora vaneggia spesso di questioni morali, dice Così va il mondo e altre banalità, e parla come uno che la sa lunga sulla vita. Le mani se le rimette nelle tasche, quando gliele rimuovo dalle mie cosce, e lì rimangono. È un vero idiota, ma quanta tenerezza.

Li avevo incontrati insieme, un tempo. Allora si riparavano dal sole sotto l’aggetto della tettoia di un negozio. “Ti posso presentare la mia fidanzata?” Mi aveva chiesto pieno di orgoglio, aprendosi una falda della giacca, dalla quale era sbucata questa ragazzina tremante per il privilegio di essere accanto a lui, avvolta nei vapori d’eau d’aiselle del suo conquistatore, gli occhi sognanti e persi nel sogno arcano della futura sposa.

Prendendo nella mia la sua mano morbida e sudaticcia ero colpita da quanto fosse annullata in lui. L’immagine iconizzata di una devozione estrema.

Oggi è stato privilegio della mia amica conoscerla, ma così tanto tempo dopo di me, che nel confronto tra le presentazioni notavo qualcosa di diverso. Non la ragazza poggiata a mo’ di zainetto, che lui portava come allora, tenendola a tracolla, coi piedi a pendolo, simili a quelli del figlio di Lola l’anno della scogliera. Né la mano di lui in tasca, la sua aria saccente, il tanfo permeante, frutto di un malinteso sulla virilità.

Il tempo ha insinuato tra i due una distanza incolmabile. Lei ancora si trastulla nei sogni, ma lui, come per gli odori che ha incancreniti addosso, si è ormai abituato a quella presenza adorante. Non la considera più.

Lola si era presentata da sola e subito aveva aperto il quotidiano, come barriera tra gli sguardi. Inutile. Il nostro conoscente con appendice amorfa annessa, faceva capolino sulle pagine, commentando ogni riga, incurante di risultare molesto.

Più tardi in mattinata abbiamo riso di quella strana coppia, e dopo aver salutato la mia amica ha avuto campo libero il pensiero.

Quell’uomo ha perso l’innocenza dell’idiota. La prossima volta che prova ad appoggiarmele addosso, gliele cionco senza preavviso, quelle mani.

Mi si conferma una preziosa amica, Lola, che mi sopporta spesso, che mi supporta, che mi fa ridere, e che mi darebbe le chiavi di casa sua ancora e ancora. Se solo avessi un buon motivo per chiedergliele in prestito.


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