Suzanne e quella colpa da espiare
Adattamento del romanzo di Diderot, La religiosa rimane eccessivamente aggrappato a un’illustrazione settecentesca pulita e stereotipata. Il romanzo-denuncia dello scrittore francese si appiattisce sullo schermo cinematografico e non riesce a farsi opera viva.
Francia, 1768. Suzanne viene inviata in convento dalla famiglia contro la propria volontà. Cerca di resistere, ma l’amorevole anziana Madre Superiora la convince a restare. Dopo la sua morte le subentra Christine, una suora che la sottopone a una serie di angherie difficilmente sopportabili.
Il film potrebbe scioccare il cattolico più indefesso. La religiosa mette in mostra una ragazza, che seppur priva di vocazione, è costretta all’abito monacale. La mancanza di vocazione però non deve essere fraintesa con la mancanza di fede; Suzanne infatti è molto credente. Quello che il regista (e Diderot prima di lui) vuole sottolineare sono le pratiche di un ambiente che umilia le giovani donne, se quest’ultime cominciano a ricredersi. Numerose sono le scene nelle quali Suzanne rinuncia, cade tramortita dal senso di colpa e si ritrova a vivere un’esistenza impersonale e che non ha scelto. Tuttavia siamo nel Settecento e il regista Nicloux rende la propria pellicola eccessivamente calligrafica, sia sotto il punto di vista narrativo, che sotto quello stilistico. Luci soffuse e oscurità caratterizzano la fotografia di Yves Cape e non si discostano dal periodo storico. Difatti La religiosa si aggrappa a Diderot con tutta la forza e si lascia trascinare verso i bui desideri sessuali e d’affetto di una Madre Superiora, interpretata da una stralunata Isabelle Huppert. Inoltre la pellicola diretta da Nicloux è in tutto e per tutto materia ricalcata; difatti anche il montaggio (lento ed eccessivamente ponderato) annoia e si fa specchio di un genere (quello d’epoca e in costume), che deve essere potenziato nella tematica piuttosto che nella riconoscibile messinscena.
Necessaria per comprendere l’approccio registico al romanzo di Diderot è la conoscenza del passato del regista Nicloux, che proviene da una famiglia religiosa e che ha avuto il desiderio di entrare in seminario prima di leggere il libro e seguire altri percorsi. Proprio come il romanziere transalpino, che aveva un fratello sacerdote, una sorella morta in convento e una vocazione a 13 anni, scomparsa con il tempo. E allora si comprende il bisogno per il regista di dirigere una pellicola ispirata a uno scritto che gli ha cambiato la vita, donandogli (come avevano fatto in precedenza Rivette e Grualt) un finale che nel libro è assente. Quelle sequenze finali (sospese) nelle quali il coraggio nella rivendicazione dell’autodeterminazione viene premiato. Quella rivendicazione che si scontra con l’espiazione di una colpa non sua, ma della madre. Difatti Suzanne è una figlia illegittima e priva di dote.
La religiosa ammassa per buona parte del tempo degradazioni e desideri sessuali. Rallentando pericolosamente in un’ostentazione settecentesca, difficilmente coinvolge lo spettatore e non riesce a farsi empatico veicolo di rappresentazione personale.
Uscita al cinema (prevista): 5 settembre 2013
Voto: **