Qui nessuno vuole minimizzare nulla, intendiamoci. Ma che un Papa si interfacci con la stampa, diversamente da quanto notava ieri un gasatissimo Ezio Mauro, pur non rappresentando certamente un evento ordinario, non è una novità assoluta. Basti pensare che già Papa Leone XIII (1810 – 1903), rilasciò alla stampa più interviste, precisamente al Petit Journal nel febbraio 1892 e a Le Figaro nel marzo 1899. Venendo all’Italia e a tempi meno remoti non possiamo poi non ricordare il colloquio-intervista – apparso sul Corriere della Sera del 3 ottobre 1965 – fra Papa Paolo VI (1897-1978) ed Alberto Cavallari (1927 – 1998). E che dire, rimanendo in tema di media, del fatto che il 12 dicembre scorso sia stato il “conservatore” Benedetto XVI – mai troppo coccolato, sulle colonne di Repubblica - a comparire su Twitter? La svolta, in quel caso, è stata davvero epocale. Ma allora, guarda caso, il riconoscimento verso Papa Ratzinger per un’iniziativa veramente rivoluzionaria – peraltro non priva di profili critici, primo fra tutti la possibilità, offerta a tutti, di dileggiare pubblicamente il Sommo Pontefice –è stato meno universale.
Basti pensare al titolo in prima pagina di Repubblica il giorno seguente, il 13: «Se c’è Monti non mi candido», una frase del Cavaliere, Silvio Berlusconi, ossessione perenne di quella redazione. Ma, a giudicare dalle prime pagine anche degli altri quotidiani di allora – fatta eccezione per i piccoli spazi riservati in prima pagina da La Stampa e il Messaggero -, l’iscrizione – questa sì mai vista prima – di un Papa ad un social network non colpì più di tanto. Diciamo questo, si badi, non già per negare a Repubblica il gran colpo editoriale, bensì per comprendere quanto di strumentale vi sia in certi commenti entusiasti e di infondato nella divisione fra schieramenti – i cattolici “progressisti” esultanti da un lato, quelli “tradizionalisti” attapirati dall’altro – dinnanzi alla scelta di Papa Francesco di rispondere ad Eugenio Scalfari. Il quale, come telefonate e lettere varie dimostrano, non è certo la prima persona a cui il Santo Padre ha rivolto le sue attenzioni.
Ciò non toglie, ovviamente, che si possa discutere circa l’opportunità di una simile iniziativa. Tanto più alla luce della manipolazione (abbastanza prevedibile, a dire il vero) che Repubblica ha riservato a Bergoglio intitolando il suo intervento in modo truffaldino: «La verità non è mai assoluta». Una frase incandescente, che però – verificate pure – non esiste nell’intervento papale, neppure come concetto. Papa Francesco infatti, pur scrivendo (notare il condizionale, lontano anni luce dal definitivo «mai») «io non parlerei di “verità assoluta”» – intendendo assoluta come irrelata -, precisa subito che «ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro» (p.4). Il titolo da dare alla lettera, quindi, semmai era «La verità non è mai soggettiva». Ma sarebbe stato chiedere a Repubblica onestà intellettuale. Troppo, evidentemente, per giornalisti che quotidianamente cercano di raccontare Papa Francesco come un rivoluzionario.
Come se la disponibilità e in un certo senso l’informalità del Santo Padre fossero cose mai viste prima di oggi. Mentre, per capire che non è affatto così, basterebbe rievocare la disinsvoltura con la quale, per esempio, Papa Pio IX (1792 – 1878) ogni santa sera se ne passeggiava liberamente per il centro di Roma concedendo saluti, sorrisi e pure battute dialettali ai passanti. Fino al punto di arrivare – ha ricordato Vittorio Messori – a comprare di tasca sua del vino di gran classe pur di tranquillizzare un ragazzino in lacrime che, rotta la bottiglia che aveva con sé, non osava più rientrare a casa. Un episodio fra i tanti e che ben poco meraviglia, in realtà, chi ha dimestichezza con la storia della Chiesa. Ma che certamente stupirà buona parte dei lettori di Repubblica, testata che, pur di far dire a Papa Francesco novità assolute – che nella sua pur appassionata lettera a Scalfari, piaccia o meno, non ci sono -, piazza titoli manipolatori. Ci vuole fegato, a chiamarlo giornalismo.