A chi scrive viene chiesto di assumersi una precisa responsabilità: la scelta delle parole. Sembra una faccenda da poco, che si «limita» a evitare ripetizioni ed errori. Oppure a prediligere espressioni auliche perché chi scrive, si sa, è l’inviato degli Dei: di chi?
No.
L’autore deve badare a stare alla larga da una serie di espressioni che sulla pagina non funzionano affatto. Perché sono usate, abusate, quindi svuotate della loro forza. Deve essere un inflessibile gendarme che veglia, passa e ripassa negli stessi luoghi, e non importa che ci sia già stato prima. Ci sarà di nuovo tra poco, e dopo sarà di nuovo lì.
Si ricorre a queste espressioni perché tutti le usano; in questa maniera si presume di essere sulla stessa lunghezza d’onda dei lettori. Di conquistare la loro benevolenza e a volte questo riesce, nonostante la sostanziale povertà della prosa.
Il fatto che si debba comunicare non vuol dire che ci si debba sdraiare, adottando quindi un linguaggio fiacco.
Certe espressioni come «carino», «allucinante» generano repulsione. Le troviamo ovunque, ecco il problema: sono vecchie. Ripeto: per tanti è una buona pratica. Non comprendono che la realtà deve essere manipolata per vivere sulla carta. Ricopiarla non conduce da nessuna parte. Si tratta di una scorciatoia che può apparire intelligente. Spesso quando la si imbocca, di fatto permettiamo a quello che è fuori di noi di scrivere la nostra storia. Abdichiamo al nostro ruolo.
Questo non accade (o se accade, avviene in misura inferiore) se si legge tanto. La svista può capitare, ma si sviluppa una specie di radar che quando si rilegge quanto scritto, avverte che esiste sulla pagina qualcosa di estraneo.
Adesso la domanda: “Ma allora, non devo mai usare carino o allucinante ed espressioni simili?”
Non è questo il punto. Voler “aderire alla realtà” è una dichiarazione priva di senso. Occorre invece riflettere bene su quello che adagiamo sulla pagina, e se abbiamo fatto un buon lavoro su di noi, ci renderemo conto che “stonano”. Che si arriva a quel punto, dove c’è “carino”, ed è come incontrare uno spigolo.
Il punto è che ci si deve riconoscere nelle parole che usiamo. In un certo senso devono essere patrimonio nostro, e della storia che andiamo a raccontare. Quello che mi capita quando scribacchio i miei racconti, è che nella rilettura emergono espressioni che vanno bene al bar. Non sulla pagina, né nella storia. Poi magari capita di usare “allucinante” ma solo perché in quel preciso momento, funziona.
Ripeto: la lettura, la lettura accurata, permette di tornare su quello che scriviamo con un’occhio in grado di cogliere le stonature. Occorre tempo, sia per imparare, sia per individuare quello che stona.
Certo, se tutto quello che si ha in testa è pubblicare, non si presta attenzione alle parole.