Sono l’ultima ad imbarcarmi. Scambio quattro chiacchiere con gli ex colleghi ed ecco che percorro tutto il finger fino a raggiungere gli altri passeggeri. Fermi. Si aspetta.
Salgo, trovo il mio posto e mi siedo. Il portellone si chiude accompagnato da una voce, quasi metallica, che annuncia la fine dell’imbarco. Rullano i motori, il momento che preferisco è il decollo. L’inclinarsi del muso dell’aereo, l’impatto con l’aria, la pressione sul petto che ti attacca al sedile.
Se il tipo seduto al 4c non la smette di girarsi, giuro che mi alzo e gliene dico quattro.
Finalmente sto volando a Berlino, sono solo due giorni ma ho bisogno di ricaricare le pile, di staccarmi un po’ dalla quotidianità, di non sentirmi più in gabbia o almeno posticipare la sensazione per qualche settimana ancora, fino al prossimo viaggio, fino al prossimo aereo. Facendo due conti questo è il quinto aereo che prendo quest’anno e ogni volta la sensazione non cambia, è meravigliosa.
La tratta Venezia-Berlino è breve, solo un’ora e un quarto di volo, ma non ho sonno e non ho voglia di leggere, ho deciso di scrivere. C’è qualche turbolenza, il sedile vibra leggermente, ma ormai non mi disturba neanche più di tanto.Attacco la musica, mi isolo, ne ho bisogno. Ho bisogno di stare un po’ con me stessa, di mettere in ordine le idee ancora un volta. Sì, lo so, sono un caso umano, un’anima in pena che vaga continuamente alla ricerca di qualcosa, qualcosa chiamato felicità presumo.
Qualche giorno fa Federico di Masterpiecetravel mi ha inviato su Facebook i link di un video. “Guardalo” mi ha detto. Il video era di Wandering Will, un ragazzo, ormai uomo, che all’età di 33 anni ha lasciato il lavoro per inseguire qualcosa che all’inizio del suo viaggio sembrava irraggiungibile: la felicità. Molla tutto, lavoro, amici e parte per un giro del mondo lungo sei mesi.
Le sue parole sono semplici ma ricche di significato. Mi fanno pensare. Comincio a sentirmi scomoda su quella sedia d’ufficio, le domande che mi faccio sono scomode. “Sei sicura delle scelte che stai facendo?”, “Sei felice?” e così via, ma è la seconda domanda quella che mi turba di più perché non so rispondermi. Il “non lo so” echeggia dentro di me peggio di un “no”.
Passi la vita a cercare di fare “ciò che è meglio” ma spesso e volentieri questo “meglio” si scosta molto dall’inseguire un sogno che magari covi dentro di te da anni e che tieni in un cassetto perché sembra irrealizzabile.
Da piccola sognavo di aprire una libreria, di conoscere ogni storia, ogni autore e di vivere tra le parole dei libri. Amavo scrivere ma mi hanno sempre detto che scrivere non porta il pane a casa, che poteva al massimo essere un hobby ma non di certo un lavoro. Significa che non potrò mai essere felice? Alla passione per lo scrivere si è aggiunta quella per il viaggio. Stesso problema. “La tua è un’utopia”, quante volte me lo son sentito dire. Sì, magari il sogno di vivere scrivendo e avere il tempo per viaggiare è irrealizzabile, ma questo significa che non posso nemmeno provarci? Non voglio rimanere con il rimorso e rimpianto di non averci neanche provato.
E quindi eccomi qui, in un periodo di transizione, in cui i viaggi sono brevi ma più frequenti, in cui scrivo per lavoro e scrivo per piacere, ma so che la mia strada non è finita, sono solo all’inizio della salita e probabilmente suderò ancora molto per arrivare dove c’è la mia felicità, ma non mi fermo. Basta, ora ascolto solo me stessa. Sono una sognatrice, lo so bene, ma la vita è una e non mi accontento. Non mi accontento.