Fa un certo che leggere oggi nelle pagine di Nessuno al mondo, finalista al Man Booker Prize, la lucida descrizione del regime di Gheddafi verso la fine degli anni Settanta in cui roghi di libri, intercettazioni, denunce, accuse, tradimenti, torture, esecuzioni capitali trasmesse in televisione erano all’ordine del giorno.
Nel romanzo di Matar la figura di Gheddafi è una sorta di immagine dell’orrore, un ritratto agghiacciante, raccapricciante, efferato.
Anche il padre di Hisham Matar è stato fatto sparire dal regime nel 1990 e da quel giorno lui non ha mai smesso di cercarlo.
“Mio padre, nei fatti, non c’è. Dov’è l’uomo che mi piaceva fare ridere? Dov’è l’uomo che rispondeva alle mie lettere solo se erano scritte in arabo? Vorrei scrivere una lettera in arabo. Dov’è l’uomo che mi diceva la parola pazienza come se fosse un voto? Dov’è l’uomo a cui avevo promesso una nipote chiamata Taswahin – che in arabo significa donna uguale a qualunque uomo – il nome che avrebbe voluto per la figlia che non ha mai avuto…”
– Erano loro, – disse. – Ne sono sicura. Sentivo qualcuno respirare dall’altra parte. Ho cercato di farlo parlare, ma ha riattaccato –. Ansimava, tormentandosi le mani. – Forza, mettiamoci al lavoro prima che arrivino.
Mussa fissò il tavolo. Le mascelle gli si contraevano rapidamente e ogni volta formavano due protuberanze rotonde sotto le orecchie. – Dov’è il martello? – disse.
– Non credo di averne uno, – rispose mama, aprendo qualche cassetto in cucina. – No, penso proprio di no.
– Non importa, – disse togliendosi una scarpa. – Basta che mi dai un chiodo.
– Non credo di avere nemmeno i chiodi.
– Avrei dovuto immaginarmelo, – disse spazientito, e con la scarpa in mano zoppicò fino al soggiorno. Lo seguii. Tirò giù il ritratto di baba, quello che stava appeso troppo in alto sul muro. Provò la solidità di quel chiodo, poi lo colpì un paio di volte col tacco della scarpa. – Dovrebbe andar bene, – disse fra sé, e uscì dalla stanza.
La foto di baba era sul pavimento, appoggiata allo sgabello del pianoforte. Il suo sorriso non era più lo stesso, sembrava imbarazzato, e gli alberi dietro di lui parevano ancora più finti. Mussa tornò stringendo fra le braccia l’enorme cornice. Ai lati si scorgevano le spalle di un uomo decorate con stelle e aquile. Mussa aveva il fiatone. Spinse il ritratto in alto, lo abbassò un po’, poi lo spinse ancora su. – Suleiman! – disse rauco, e io appoggiai l’orecchio alla parete. – Un po’ più su, – dissi. Ma lui lasciò scivolare il quadro più in basso. Trattenne il fiato, poi afferrò di nuovo la cornice. – Un pochino più giù, – dissi. – E un po’ sulla destra –. Facemmo un passo indietro e guardammo il Colonnello con lo sguardo fisso in lontananza. Il berretto abbassato sugli occhi, come se qualcosa nel cielo lo infastidisse: ciuffi di capelli neri gli spuntavano sulle tempie, intorno alle orecchie e alla nuca, due rughe misteriose scolpite nelle guance come parentesi ai lati della bocca. La targa d’ottone sulla cornice diceva: Colonnello Muammar al-Gheddafi, la Guida della Rivoluzione Popolare Libica. – Il Benefattore, il Padre della Nazione, la Guida! – disse Mussa con un sorriso. Alzò il pugno in aria, cantando: – Al-Fa- teh, al-Fateh, al-Fateh, – fingendosi una folla di migliaia di persone. Rimasi serio. Nascose poi il ritratto di baba dietro il piano e si rimise la scarpa. Quando tornammo in cucina, mama non c’era.Hisham Matar, Storia di un esule libico.