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La riflessione cura i dettagli

Da Marcofre

la riflessione cura i dettagli

Sul serio: la riflessione aiuta ad avere cura dei dettagli di una storia. L’ho sperimentato di recente (e ancora una volta) nella scrittura di una racconto di circa 4000 parole, e che farà parte della terza raccolta di racconti che pubblicherò su Narcissus nel 2016 (settembre/ottobre, non prima). Hai presente la mia “Trilogia delle Erbacce”? Ecco, adesso lo sai (esatto, è un messaggio promozionale!). Ah, già, devo ancora pubblicare la seconda raccolta, lo farò dopo l’estate.
Ma mentre scrivo queste frasi capisco pure che col termine “riflessione” dico tutto, e dico niente. Che cosa significa riflettere su una storia?

L’habitus di chi scrive

Il termine, tanto per non sbagliarsi, arriva dal latino: significa “ripiegare” “volgere indietro”. Questo è dannatamente interessante, poiché l’atteggiamento, o meglio l’habitus di chi scrive in una certa maniera, deve essere quello di tornare sui suoi passi, di volgere indietro. Sembrerebbe ovvio: chi scrive non ha mica la presunzione di dire tutto e di farlo al primo colpo, vero?
Be’, non è detto, anzi. Di solito chi racconta storie, gira con in testa la storia. Quindi esce di casa, va a compiere azioni molto prosaiche come prendere il pane (lo fa al mattino presto per evitare di trovare coda), e mentre cammina che ha in testa? Esatto, la storia.
Una storia dove non succede niente di clamoroso. C’è una donna che lavora, ma che vive in un’abitazione sotto il livello stradale. Insomma, quelle persone che non importano a nessuno, che non vediamo, e che se vediamo “ci dispiace tanto”, ma che diavolo ci possiamo fare? Vive ai margini, è un’erbaccia: ma pure noi siamo così, solo che non ce ne rendiamo conto. Abbiamo un lavoro e questo ci permette di credere che non siamo erbacce. Lo siamo comunque.
Poi succedono un po’ di cose, ma non è questo che importa. A un certo punto un altro personaggio le chiede:

“Lei ha studiato?”

Questa domanda, e la risposta della protagonista (“No”), l’ho eliminata. Perché a mio modo di vedere era già evidente che donna fosse. L’avevo illustrata per bene nelle pagine precedenti. La sua rassegnazione, la sua solitudine, la sua famiglia (appena accennata) proclamavano che lei era un’erbaccia. Un’erbaccia coi fiocchi, insomma, abituata a vivere ai margini, mentre noi sfrecciamo veloci, indaffarati. Vincenti.
Ma quella domanda aveva un altro difetto.


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