Acireale, cantiere di lavoro dei carri allegorici
Tra i miti e le leggende più antichi della Sicilia quelli raccontati da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, o quegli altri che ci tramanda Teocrito o quelli ancora raccolti da Publio Ovidio Nasone nelle sue Metamorfosi, poema epico-mitologico scritto qualche anno dopo la nascita di Cristo, ci dànno molte spiegazioni con le quali la cultura greca prima e romana dopo, definirono le credenze popolari e fantastiche. Raccontavano, forse da tempi immemorabili, storie e leggende della nostra Sicilia che diedero vita all’immaginario mondo della bellezza e hanno legato per sempre, fino ai nostri giorni, il passato e il futuro della Sicilia al sogno e alla follia. Perciò la Sicilia è terra sognata e imprevedibile, difficilmente riducibile nei suoi confini meramente geografici. Qui i simboli valgono molto di più degli oggetti e delle cose reali. In questa terra, insieme di aggregati geologici provenienti dalle più diverse parti del Mediterraneo, arcipelago d’un tempo riunito in una sola isola, la metafora e il non detto valgono più delle cose troppo aderenti alla realtà e ai suoi fenomeni. La Sicilia, per sua natura è internazionale, formata da isole provenienti dall’Africa, dall’Europa mediterranea e dall’Oriente, e conquistata dai più svariati popoli. E’ perciò forte e mite come terra, dovunque diversa, quando la tocchi. La costa ionica che guarda verso la Grecia ci ha dato, così, le isole dei Ciclopi, i faraglioni di Aci Trezza, e i luoghi dei Malavoglia di Giovanni Verga. E’ proprio lungo questa costa di pietra lavica in cui predomina il nero che nascono nei millenni i miti e, in tempi a noi vicini, i racconti dello scrittore catanese.
Nel periodo in cui visse, tra il 48 a.C. e il 18 d.C., Ovidio descrisse il mito di Aci e di Galatea, il primo un pastore, l’altra una ninfa. Entrambi sono strettamente collegati dall’amore, la filigrana che unisce Galatea al suo giovane amante. Umile, agreste, ma bellissimo. Fino al punto da suscitare le ire di Polifemo, anche lui innamorato della ninfa, fino alla follia di eliminare il suo rivale schiacciando, con il lancio di enormi massi di lava, il giovane. Ma anche la morte ha la sua ricompensa e succede, così, che la ninfa ottiene da Giove di trasformare il sangue di Aci in un fiume di acqua viva dove lei può specchiarsi e immergersi.
Questo mito, probabilmente, si può considerare all’origine della credenza di come i siciliani vivano visceralmente il senso dell’amore. Vi troviamo tutti gli ingredienti del merveilleux: Polifemo, emblema della violenza e della forza fisica, Aci, trasformato in un corso d’acqua, l’immersione della ninfa nelle acque invisibili che sgorgano nel mare azzurro e nero di rocce vulcaniche. Un amore che nasce e si esaurisce solo per caso in quel tratto di costa che guarda la Grecia.
Le variazioni nel tempo di questo mito sono costanti. Polifemo infatti si lega al lungo peregrinare di Ulisse e al suo ritorno in patria. La sua violenza e la sua forza smisurata non riesce a battere Ulisse che, dopo avere accecato il Ciclope grazie alla sua astuzia, scampa agli artigli della morte e naviga verso altri pericoli: la maga Circe, le tentazioni delle sirene, il mondo dell’oltretomba.
Ecco un mito e una leggenda di straordinaria ricchezza, un luogo di personaggi destinati a vivere per molto tempo e ancora oggi alla base di molte leggende siciliane.
Il mito che abbiamo descritto ha una sua identità territoriale quasi ultramillenaria nei comuni di Acireale, e nei suoi villaggi di Santa Maria la Scala, e di Aci Catena, di Aci Sant’Antonio, di Aci Castello e nel suo villaggio di Aci Trezza.
Giuseppe Casarrubea