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Non so se ci avete fatto caso, ma in Tunisia, un paese non molto lontano dal nostro, c’è stata una rivolta. L’hanno chiamata “la rivolta del pane”. È iniziata con suicidi di persone che avevano perso il lavoro e avevano figli laureati ma disoccupati. È continuata con dimostrazioni, spari sulla folla e saccheggi. È finita con la fuga del presidente in carica.
Qualche settimana fa, su questo blog e non solo, si è discusso del rapporto tra violenza e cambiamenti politici e sociali. Quando a Roma, in occasione della manifestazione contro la riforma Gelmini, sono state incendiate due macchine e rotte tre vetrine, i quotidiani si sono riempiti di condanne contro i “facinorosi” e appelli alla non violenza. Con sfumature diverse ovviamente. Dalla lettera di Saviano agli editoriali di Veneziani. Tutti concordi nel dire che quelli erano delinquenti comuni.
In questi giorni invece neanche una riga di commento. Nessun intellettuale che abbia condannato l’utilizzo della violenza da parte dei dimostranti in Tunisia. Già chiamarla “rivolta del pane” lascia intendere una certa accondiscendenza nei confronti dei dimostranti.
Comunque solo articoli di cronaca che registravano casomai le reazioni politiche degli attori locali. Le condanne alle forze dell’ordine che sparavano sulla folla. Qualcuno dell’opposizione che ha provato a condannare i saccheggi attribuendoli a infiltrati (già sentita?) che si è dovuto rimangiare la parola quando si sono viste donne fuggire tra le fiamme con i pacchi dei pannolini. Un presidente, Ben Alì, che accusava i rivoltosi di essere sobillati da elementi provenienti dall’estero (anche questa l’avete già sentita eh?). Insomma la procedura standard. Seguita però con un certo interesse. I giornali, sia di destra che di sinistra hanno sottolineato con un certo compiacimento la caduta del regime, la fuga del presidente ed il fatto che questo non fosse stato accolto come rifugiato da nessun paese europeo.
D’altronde la stessa cosa accadde qualche tempo fa quando vi fu un tentativo di rivolta in Iran. Anche in quel caso, i nostri tutti dalla parte dei rivoltosi. Insomma oh, questi tunisini e iraniani lottano per la libertà e per il pane, mica fichi secchi.
Poi però quando i rivoltosi si hanno in casa è tutto un altro paio di maniche. E allora giù con le filippiche su Gandhi e su come non si protesti con le Nike ai piedi oppure come siano tristi questi nipotini del 68 etc. Immaginatevi cosa non sarebbe successo se gli operai di Mirafiori avessero incendiato lo stabilimento.
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