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La rivolta in Siria e la sindrome delle quattro "i".

Creato il 28 luglio 2012 da Astorbresciani
Ho provato a chiedere ad alcuni conoscenti di spiegarmi cosa sta succedendo in Siria. Nessuno di loro ha saputo rispondermi e qualcuno è arrivato a liquidare la faccenda sentenziando che è in corso una baruffa tra arabi, una faida musulmana che non ci riguarda. Ho risposto che la situazione è un po’ più complessa, che forse ci riguarda, al ché sono stato apostrofato con queste parole: “Ognuno ha le sue gatte da pelare”. Sì, forse è vero, la crisi economica ci angustia e deprime. Non abbiamo tempo né voglia di pensare ai guai altrui, figuriamoci le sommosse popolari in Siria, anche se lo scontro fra il governo e il Consiglio nazionale siriano (i rivoltosi) è sempre più sanguinoso, tant’ è che i morti registrati da marzo 2011 a oggi sono oltre 19.000 e il regime sta attuando violenze che rasentano “la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità”, come ha denunciato a Bruxelles il Ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi. Purtroppo, la Siria è arrivata tardi oltre che nel momento sbagliato. Abbiamo fatto indigestione di “baruffe arabe” con la Primavera araba del 2011. La rivolta tunisina, quella egiziana con la caduta di Mubarak, infine la guerra civile in Libia con la fine di Gheddafi… diciamo la verità, non se ne può più delle forsennate torme islamiche che strepitano come se avessero il fuoco di Sant’Antonio. Adesso tocca alla Siria e ai siriani, beh, che sarà mai? Lo sappiamo tutti come andrà a finire: il regime è alla frutta dopo decenni di bagordi iniziati nel 1963, quando il colpo di stato del partito Ba’th trasformò la Siria in un Paese in stato di emergenza oltre che nel covo del male. L’autocratico Presidente Bashar al-Assad, erede di quell’Hafiz al-Assad che dopo trent’anni di dittatura morì a causa di una fibrosi polmonare, mentre avrebbe meritato la forca, è politicamente già defunto e farà la misera fine degli altri despoti maomettani su cui è tramontato il sole: Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Già, ma a quale prezzo? La questione siriana è delicatissima e la partita è aperta. Il regime è ancora coeso e intende reprimere a qualunque prezzo la rivolta riformista anche a costo di rivitalizzare le organizzazioni jihadiste, cioè il terrorismo. Le incognite sono tante e tali da fare accapponare la pelle. Israele minaccia di bombardare gli arsenali chimici di Assad con chissà quali conseguenze. La tensione fra Siria e Turchia sta lievitando. Anche la Giordania è in fibrillazione. La situazione precipita di ora in ora. Fino a quando l’Onu potrà differire l’intervento dei caschi blu? E se fosse la Nato a rompere gli indugi? Quali reazione provocherebbe un intervento militare esterno nei Paesi arabi confinanti (ndr: i sauditi e gli emiri del Qatar finanziano i ribelli) e nell’Iran? E come reagirebbero la Russia e la Cina, che notoriamente proteggono la Siria e hanno posto il veto alle sanzioni contro Assad vagliate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu? Il fatto è che il gran casino di Siria chiama in causa logiche di geopolitica molto sottili e coinvolge l’intero scacchiere mediorientale. È difficile dire cosa succederà a Damasco, Homs e Aleppo nei prossimi giorni e soprattutto come andrà a finire, aldilà delle ipotesi dell’uomo della strada e delle facili conclusioni. Il ché rende ancora più importante e interessante ciò che in questo momento accade laggiù. Ma cosa sta avvenendo, a farla breve? È in atto una guerra di tutti contro tutti, un massacro. Eppure, è come se la questione fosse marginale, ininfluente, banale. I giornali e le televisioni ne parlano poco, con malcelato fastidio e poca chiarezza. È un caso? No, è in atto una premeditata campagna di disinformazione e manipolazione mediatica, resa più facile dal fatto che siamo in piena estate, alla vigilia del grande esodo al mare e in montagna. Diamine, la gente non vuole essere disturbata con notizie di violenze, combattimenti e stermini. Meglio occuparsi di gossip e di calciomercato. Meglio domandarsi se nel grembo della Fico c’è il bambino di Balotelli o di mister X. Poveri noi. Anziché osservare il mondo e cercare di capire se ci stiamo avvicinando ad Armageddon (economico e politico), preferiamo spiare il vicino di casa o guardare le terga della Minetti dal buco della serratura. Tornando ai miei conoscenti che non hanno saputo mettere insieme due concetti sulla Siria, devo purtroppo constatare che non sono l’eccezione ma la norma. Per questo motivo, associo la crisi siriana alla sindrome delle quattro “i” che pare abbia colpito la maggioranza della popolazione italiana e, forse, mondiale. Quali sono queste quattro “i”? L’ignoranza, l’indifferenza, l’ipocrisia e l’incoscienza. Ormai fanno parte della way of life nazionale, sono controvalori radicati. Cominciamo con l’ignoranza. Sebbene viviamo in una società globalizzata e i mass media fanno entrare il mondo nelle nostre case ogni giorno, siamo più ignoranti di cinquant’anni fa. Il nostro sapere si è ridotto ai minimi termini e spesso è confuso ed errato. Goethe metteva in guardia che “nulla è più terribile dell’ignoranza attiva”. Viviamo nell’era dell’ignoranza attiva, in cui a parlare e dettare legge sono proprio gli ignoranti. Quello che mi ha stupito maggiormente, nominando la Siria, è che molti non sanno nemmeno collocare geograficamente questa nazione né sanno che Damasco è la sua capitale. Figuriamoci il resto. Per estensione, mi è capitato di notare che i giovani in particolare sono così ignoranti da sommare i tre tipi di ignoranza: saper niente, saper male e sapere ciò che non serve sapere. Fateci caso e poi ditemi se non è così. Naturalmente le sommosse in Siria sono solo un esempio, un indice minimo dell’ignoranza con cui ci si relaziona col mondo nell’era di internet e dei Social Network. Forse perché il mondo siamo noi e degli altri ci interessiamo solo nella misura in cui possiamo parlargli di noi? Non lo so, ma so che la gente non brama di imparare ed evolversi, è ignorante a 360° e, cosa ancora più grave, si bea della propria ignoranza. Le palestre e i centri estetici sono pieni, le librerie vuote. Vorrà pure dire qualcosa? A che serve coltivare la conoscenza se ciò che conta, in un mondo sempre più edonistico e meschino, è la cura del corpo? Ma l’ignoranza è solo il primo fattore critico negativo. Fa il paio con l’indifferenza. Nicolas de Chamfort ci ha lasciato questo splendido aforisma su cui riflettere: “Soltanto l’inutilità del primo diluvio trattiene Dio dal mandarne un secondo”. Come dargli torto. A Dio, naturalmente. I nostri tempi sembrano segnati in modo indelebile dall’indifferenza quasi generale. Siamo talmente concentrati su noi stessi e i nostri bisogni, così innamorati del nostro Ego da considerare con sufficienza tutto ciò che è esterno a noi. L’indifferenza è figlia dell’abitudine, dell’egoismo, della superficialità. Guarda caso, tre prerogative dell’uomo del XXI secolo. Attenzione, però, siamo indifferenti a compartimenti stagni. Ci interessano le cose che ci fanno stare bene, ci fanno divertire, ci fanno sentire importanti. Una donna non sarà mai indifferente a una borsa di Gucci e un uomo alla Ferrari rossofuoco. Però siamo indifferenti al vuoto pneumatico che ci circonda e in cui galleggiamo, anzi ci stiamo bene perché ci assolve da incombenze fastidiose: pensare, agire, creare. Per contro, siamo indifferenti a tutto ciò che non può appagare l’Ego ma se mai richiamarlo a una lezione di umiltà. C’è la guerra civile in Siria? Chissenefrega. I bambini muoiono di fame e di sete in Africa? Peggio per loro. Le donne vengono mutilate e violentate sistematicamente in molte parti del mondo? Non dovevano uscire di casa. L’indifferenza è una piaga planetaria ma in Italia sta diventando insopportabile. Non ci fermiamo a soccorrere una persona che ha avuto un incidente (al massimo, ci godiamo lo spettacolo dei soccorsi in posizione di sicurezza) né interveniamo per mettere in fuga un ladro o uno stupratore, figuriamoci cosa ce ne importa se in un anno muoiono 19.000 persone in Siria!  Ignoranza e indifferenza spiegano solo in parte la nostra viltà, figlia di una alienazione inarrestabile. La terza “i” è quella di cui facciamo sfoggio con maggiore disinvoltura: l’ipocrisia. Siamo diventati come il coccodrillo, che piange dopo avere divorato la sua preda. Ci scandalizziamo e facciamo un quarantotto per Green Hill e i beagles sottratti alla vivisezione (e sono totalmente d’accordo) ma siamo insensibili davanti ai morti di Damasco, bambini compresi. Come mai? Perché ci scaldiamo se i giapponesi fanno strage di balene ma non alziamo un dito per impedire la mutilazione delle donne musulmane? E perché ci movimentiamo per i diritti dei gay e ce ne infischiamo di quelli dei curdi o delle altre minoranze etniche in pericolo? Perché siamo ipocriti. Siamo così ipocriti da prendere posizione solo a favore di ciò che pensiamo sia “politicamente corretto”. Non siamo più in grado di decidere con la nostra testa cosa sia giusto o ingiusto. Il nostro giudizio è dettato da fattori come la convenienza e la conformità. La quarta “I”, infine. Mi riferisco all’incoscienza, intesa come non-coscienza, mancanza di consapevolezza. Dall’osservazione dei comportamenti antropologici si evince il male sottile dell’umanità: l’inconsapevolezza. E come se non sapessimo più chi siamo. Ho spesso riscontrato che a determinare gli atteggiamenti ottusi e le decisioni sbagliate è proprio la défaillance dello spirito. O meglio, il fatto che la nostra coscienza sia sotto l’effetto dei barbiturici. Siamo manipolabili, assenti, corpi estranei al mondo e alla natura pur facendone parte. Quanto meno, ci comportiamo da tali. La nostra società è piena di walking dead che si limitano a soddisfare i bisogni fisiologici naturali e a cercare disperatamente il denaro e il divertimento (che spesso si trasforma in annichilimento). Non si pongono nemmeno uno dei famosi interrogativi esistenziali: Chi sono? Dove vado? Cosa voglio? – e via di seguito. Mancano di quella consapevolezza che dovrebbe guidarli nella vita e indicare loro non solo la direzione giusta ma anche il viatico da portare seco. Ma qui il discorso si amplia e si fa arduo. Non è possibile prendere coscienza di sé e del proprio ruolo nel mondo se si sceglie di vivere come gli umanoidi e rinnegare i valori immortali che da sempre guidano l’umanità verso la vera evoluzione, quella interiore. La consapevolezza non è un dono ma una conquista faticosa. E la fatica, oggidì, viene elusa come se fosse contagiosa. Si fa fatica a imparare e conoscere, l’ignoranza è più rassicurante. Si fa fatica a interessarsi delle cose e partecipare, condividendo le emozioni, i sacrifici, l’ansia. Meglio mostrarsi indifferenti, che tanto chi ce lo fa fare di cercare rogne. Si fa fatica ad essere onesti e sinceri, meglio proteggersi dietro lo scudo dell’ipocrisia che assicura l’approvazione sociale. Infine, si fa fatica a crescere. Non dal punto di vista ormonale, che basta mangiare a più non posso succulenti cadaveri di animali farciti di estrogeni e fare uso di beveroni, bensì intellettualmente, moralmente, spiritualmente. Si fa fatica a prendere coscienza di noi stessi, figuriamoci il resto. Ecco perché non mi stupisco che ieri un ragazzo di ventiquattro anni mi abbia chiesto se i siriani vengono da Sirio, la Stella del cane, la più brillante del cielo notturno. Non ho avuto il coraggio di dirgli la verità. E poi, chi può affermare con certezza quali siano le origini dell’antica, fiorente civiltà di Ebla?

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