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La Roma di Alemanno, furbi et orbi

Creato il 09 giugno 2013 da Albertocapece

214607512-0d65f1c7-fe91-4931-84e5-6d816cfe0b4aAnna Lombroso per il Simplicissimus

Una delle coazioni a ripetere più frustranti della nostra contemporaneità nazionale, consiste   nella costrizione che subiamo, ineluttabile e implacabile, a scegliere il meno peggio, non il meglio, nell’assoggettarci a maggioranze silenziose, che inducono a tapparsi il naso e votare dopo tanta Dc, le sue varie perversioni attuali, o le aberrazioni di quella che un tempo era la sua opposizione, nel consentire la retorica del voto inutile, della fatalità del conformismo e dell’unanimismo elettorale in funzione del contrasto alle tremende necessità, vere o nutrite artatamente.

Eppure perfino quel percorso è arduo, solo apparentemente “vince facile” Marino su Alemanno ed infatti la vittoria non è affatto sicura. E non soltanto perché a volte sarebbe ora di applicare la formula brechtiana, secondo la quale viene l’ora di sciogliere il popolo. E il popolo romano per necessità, per il perpetuarsi di condizioni di devianti contiguità con il potere, per un difficile configurarsi identitario di cittadinanza – l’urbe è un posto di arrivi e immigrazioni le più varie –, e, anche se ci sta stretto, si è accomodato in una nicchia di licenze, condoni, arbitrarietà, doppi lavori, familismi e clientelismi,   affini storicamente al patrimonio “ideale”,  alla fenomenologia, all’indole affaristica e becera della destra, quella dei costruttori “magnaccia”, dei boiardi a mezzo servizio tra stato e privato, ma negli anni poi mutuata festosamente dal centro sinistra.

Ma anche perché il “meno peggio” si è svelato già troppe volte nella sua miserabile affiliazione a poteri che rifiutano l’interesse generale a beneficio  di quello personale e privato, che avviliscono e svendono beni comuni,   bisogni e aspettative collettive.

Tanto per non andare lontano, oggi i veneziani scendono in Canal Grande a protestare contro l’oltraggio  delle Grandi Navi che sfilano  nello stretto  passaggio tra quella gemma preziosa che è San Giorgio e la Piazzetta, offendendo bellezza, storia, paesaggio urbano, ambiente. Solo apparentemente la sfiorano quella città così fragile, così vulnerabile che la sua trama, il suo “tessuto”, è ripreso come in una allegoria nei merletti aerei e delicati di Burano. In realtà le infliggono ferite profonde, facendo tremare le sue radici, quelle palafitte sulle quali si erge il più straordinario prodigio urbanistico del mondo, vomitando migliaia di turisti spaesati e impreparati alla sua “specialità”, impoverendo l’ordito delle sue attività tradizionali e del suo commercio ridotto a vetrina anonima di prodotti senza origine e senza qualità, uguali là come a Dubai, a Minneapolis e come a piazza Taksim, in calli retrocesse a gallerie e store, campi e piazze spodestate del loro destino di luoghi   fatti per incontrarsi e ragionare insieme. A Venezia il voto ad Orsoni era sembrato inevitabile, il decantato “meno peggio” rispetto a quello a Brunetta, per rivelarsi l’orrenda condanna per i cittadini di buona volontà ad ammettere che “sono tutti uguali”,  che pare non vi sia strada virtuosa al potere e che sia inesorabile la consegna al primato del profitto, all’accettazione del ricatto tra stentato benessere e rinuncia ai diritti all’ambiente, alla bellezza, alla cultura, alla memoria di sé e della propria storia di popolo.

Roma è una città trasandata, trascurata, spettinata. Soffocata dal traffico. Offesa nei suoi monumenti abbandonati. Irrisa nelle sue rovine, recintate come una vergogna da rimuovere poiché non si possono tutelare. Ostaggio dei costruttori, protetti da Stato schiavo della Chiesa, che hanno condizionato scelte e destini, piena di case obsolete prima di essere finite, palazzoni degradati prima di essere abitati, stabili vuoti perché si sa che è conveniente e profittevole vendere o affittare un appartamento su tre e gli altri vadano pure in decomposizione. E che tuttavia, prima con Veltroni e le sue variante au bout de soufflé prima di assurgere a più alti destini, ora con gli oltre sessanta “aggiornamenti” di Alemanno, continua ad essere terreno di scorreria e preda ambita del cemento. Il suo Agro, quel paesaggio sereno e armonioso, pingue e morbidamente opulento è aggredito da una criminalità più o meno legittimata. La città è assediata dai rifiuti. Le sue aziende sono state e sono formidabili bacini del più volgare e esplicito clientelismo, in barba a competenze, efficienza, interesse generale. Ministeri ed uffici pubblici assomigliano sempre di più alle macchiette delle commedie all’italiana e agli stereotipi letterari di Gogol o Kafka, dove documenti si perdono in interminabili corridoi secondo le leggi non scritte ma egemoniche di una bizzarra burocrazia, intesa al non fare così non si sbaglia.

Senza alcune soddisfazione per il compimento del proprio dovere chi, come me ha  dato l’ennesimo “voto inutile”, molto convinto, a Medici, si sente costretto oggi o domattina a scegliere il meno peggio, se è, come me appunto, ostile all’astensione remissiva o protestataria che sia. Nel bene e nel male, qualche annuncio Marino l’ha fatto: rinnegando la sua militanza laica, male!, sostenendo la necessità non procrastinabile di compiere un’opera di moralizzazione o  impegnandosi a rispettare il coefficiente zero di edificazione dell’agro romano, bene!

Ma sappiamo che gli annunci sono un sistema di governo. Allora l’impegno che dobbiamo assumerci è quello che una volta si chiamava “vigilanza democratica”, con l’esercizio di un diritto e dovere che non si esprime nell’urna ma nella sorveglianza dei fatti e delle azioni, con l’irruzione nel processo decisionale e con l’accertamento e la verifica dell’efficacia degli atti, con il continuo richiamo alla trasparenza. Difficile far peggio di Alemanno: ma facciamo meglio di quanto abbiamo fatto da  cittadini di Roma in questi anni,   distogliendo lo sguardo, come per il pudore di farsi vittime del cattivo governo e riprendiamoci la città.


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