LA SABBIA CHE RESTA
(L’ultimo poema)
giugno 2000
Ti hanno promesso
la beatitudine,
voltati dall’altra parte:
gabbane di guitti
accendetemi
il miracolo involontario!
Ma voglio luce
che penetri buia
e sghignazzi spernazzi
sul paradosso
che ho appena
miseramente sputato.
Ti hanno invitato a corte,
dove non mancheranno
le lepidezze per il palato
e lo sterco ben modellato;
mi volto dall’altra parte
e non c’è nessuno,
c’è tutto quello che amo
e non sarà disponibile.
(Sull’Elicona, tutti,
a fare un pic nic,
con Coca-Cola, panini
e torta della mamma!)
Poeta Water,
tu con le
infinitesime Stupramuse,
dimmi quomodo
evitare di poetare,
e non dirmelo
se ti pare di
cacciar fuori
secretate formole
prostitutissime…
Da quando
l’ultimo scilinguato
compone versacci
non so più se conviene;
da quando
non si tace più
per decoro
non so più se licet:
gnam gnam,
la poltiglia,
cric, crac, cric,
pane secco,
bolo isterico
e rigurgito
(attendere, pergo,
il divin peto!).
E fanno viaggi,
i turisti verseggiatori,
formula UNA NOTTE GRATIS,
e tornano a casa,
li mortacci sua,
a molestare l’orbe
con un empito di
vite defunte.
Si palpeggiano la gota:
- Cantiamo di quella volta
in cui m’innamorai
e mi batteva il cu.. –.
La musica è muta
Eternamente,
non si dà più
la melodia
se non nel sogno
che facemmo
da giovani.
Sì, è così.
È ora di confessarlo
disserrando le orbite oculari,
con una lingua
che non diresti amica.
Le comete
del mio buio interno
stanno tritando ghiaccio
per la memoria,
seminano l’albore,
siderale opera,
impacchettando
felicità blindate.
Many dreams
In a night too short
I grew ignoring
My non-existent Ego,
Expressing what you
Thought one day,
While that day
Was ours
In a care-free way.
Attendo l’onda
semplice battito
di schiaffi d’acqua
addosso a chi non so,
ma non attendo il segno
che ad altri serve
per regolarsi meglio.
Irrespirabile ossigeno
che conserva crudelmente
la carcassa inviolata
di ciò che fui,
questo è il segno
che non attendo più,
il germoglio delle libertà
che mi spaventa.
Oggi si spegne
lo sfarfallio illusorio
che mi dipinsi,
scemo,
termina la parodia
con una poesia assassina
che cercavo da secoli
nelle mie latitanze.
Kerigma gli occhi
di un’innocenza estrema
che non guardano me
né lo spettacolo mondano:
si salva che smotta
e saluta la salvezza,
non acquietano più
i messaggeri candidi.
La mia pigrizia si scherma
con una rete colma
di dolci malinconie,
ricorda quando la pelle
erubesceva per i soli
nuovi sui miei nuovi giorni,
quando un cuore solo
palpitava e mi bastava,
innocuo per me, con me.
Forse una piega al telo
dei ricordi, dirsi che
non fu vero l’ultimo
dolore,
sbaragliarsi con un
colpo di scena…
Ma me la voglio
complicare tutta
questa vitaccia coglionciona,
con un pensiero fresco,
che già fete,
che brilla, che azzera…
Searching answers,
Searching answers,
So quarrels my soul
And butts against my Body,
But am I sure
That’s the real fight?
Who knows the mistery
If mistery doesn’t matter?
Next page’ll be the previous
Again…
Si regalino i poeti
l’occasione eccelsa
per farsi perdonare
le menzogne loro,
sanguinose o ingannevoli.
Anche a me raccontarono
le mezze luride verità
che narcotizzano maintenant
i patimenti necessari.
Non mi libera, la poesia,
e non ci affranca da niente,
lo annuncio allo sgombro
deposito dell’importanza.
Mi chiedano il perdono
i poeti tutti,
per avermi consolato
mentre pioveva,
illuso che quella pioggia
fosse la stessa
che vidi riversarsi
sui miei anni verdi.
Vedevo reiterare
acqua e giovani cellule,
repliche di atomi,
colori ripetuti.
Ma fu falsa
questa gioia indotta:
i poeti muoiono
con i propri versi.
Morta la goccia che cadde
e lavò la tegola da me fissata,
morta infinitamente.
Altra nettezza
lordata dal tempo,
sfilacciamento che insacca
l’incanto sgusciante.
«Ποιμένες ἄγραυλοι, κάκ᾽ ἐλέγχεα, γαστέρες οἶον,
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,
ἴδμεν δ᾽, εὖτ᾽ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι.»
O pastori selvatici, esseri obbrobriosi, ventri soltanto,
noi sappiamo dire molte menzogne simili a cose vere;
ma, quando vogliamo, sappiamo cantare il vero.
Esiodo, Teogonia, vv. 26-28, Traduzione di Raffaele Cantarella.
Ma risvegliarsi lucido
di fronte alle specchiere e benedire la strage
che Хρόνος ci dona:
La memoria a latere
del dolce ragazzo
dagli occhi di corteccia:
(Mi manchi!
Sì, mi manca la mia mano
che carezza i tuoi capelli
e la tua risata
in fondo, in fondo complice,
il profumo che ti metti,
gli occhi che guardano in tralice!
Tutto questo mi manca,
come se avessi scalato
il monte più alto del mondo
e non avessi dato il mio nome
all’impresa,
quasi non saper riconoscere
in me l’artefice
di qualcosa.
Mi manco,
non mi afferro,
sfuggo a me stesso,
come creatore
di un’opera d’arte
che è stata
il mio innamoramento!)
Anche un mio amico
Rammemora tutto il seme
Spanto tra mura casuali,
ma solo il suo bianco pianto,
né sospiri, né aneliti,
miserabile consumo dei corpi,
l’erotismo italiota!
Dice: – Nessuno mi ama! –
E cassa, scassa se stesso,
come fa la bardassa
isterica.
Das Angenehme dieser Welt hab ich genossen,
Der Jugend Freuden sind wie lang! wie lang! verflossen.
April und Mai und Junius sind ferne,
Ich bin nichts mehr, Ich lebe nicht mehr gerne.
(Il gradevole di questo mondo io l’ho goduto,
le giovanili gioie sono da tanto, da tanto finite.
Aprile e Maggio e Giugno sono lontani,
Io non sono più nulla, non ho più gusto a vivere).
Friedrich Hölderlin, Das Angenehme diese Welt, Traduzione di Giorgio Vigolo.
Ritmi della sfiatata
fisarmonica,
battono il tempo
di questa mia
inusitata elegia,
sempre al domani
gonadico
un immenso verso
da osteria:
tu allontanati,
don’t give me
your problems,
racconcia
l’indifferenza
e trascurami…
(L’ho detto
all’indeciso benedetto,
che non sa dove
sbattere la capa,
isso, che ’a capa
nnun tene!
Spiritello gentile
e beffardo pasticcione,
par di ninnare
un pupo di
settanta chili,
cattolico campione…)
Trascurarmi sarebbe
un atto d’immenso amore,
per me che non chiedo
altro che un attestato
che mi certifichi
burocraticamente
quanto io sia abortito,
anzi, mai concepito.
Ah, che un bell’ingegno
una sera se lo sia
fatto scappare
quel “toco” di sperma
che mi ha imbrigliato
non me lo so contare
con argomenti sensati.
Ma ciò che fu
Fu,
pertanto non fu mai,
e io con lui…
Alle cinque del mattino
piangere,
svegliarsi nella morte
e gemere:
questo ho fatto
e non me lo so perdonare.
Non mi va, non voglio.
La vita è la volgarità somma.
Che alle cinque del mattino
debba inforcare gli occhiali
per vedere meglio la disperazione
è il suggello della rovina.
La mia rovina
bagna adesso il viso,
irrora la giornata
fecondando soltanto il dolore.
Looking the eyes
of evil,
damned my missing blindness.
Si ha la bevanda muta,
che non gorgoglia nel deglutirla,
è la pienezza del disgusto
per la brodaglia dell’attesa.
Prendi l’Amore
con le tue mani ferme,
costringilo a confessare
le sue insopportabili beghe:
strozzalo, anzi,
arrivaci vicino a farlo,
ma fa in modo
che non ti blandisca più
con mille carezze
e duemila vigliacche
assicurazioni.
L’Amore è dell’uomo,
ricordalo,
l’animale bugiardo,
mentitore
perché provvisto di mente;
l’Amore ha avvinto tutti
almeno una volta,
e almeno una volta
è fuggito nel silenzio,
nella rapina,
nell’assassina estasi.
Perché un dio
a imprimere amore?
Perché un palazzo
di sentenze e di marmo
a sorvegliare la formula
d’un languore incostante?
Perché confinarlo
l’atto disadattato,
il conato incessante,
il disperato soccorso?
Non sa capire la terra
questa terra colonizzata
dagli uomini investiti
dalla Verità rivelata.
Non so capire,
renitente alla vita,
come si regga
la baracca che m’ospita.
Si fa poema
il distico che rinuncia
alla creazione smisurata;
poema della bazzecola,
della dismessa divinità;
poema paralitico
della luce incartata;
poema che non profuma
più l’aria;
poema che irradia
un raggio di nulla.
Ma lasciami partire:
ho bisogno di te!
(No,
non prenderò più nota
del vortice supremo
che m’ha trasportato
integro là dove
non so vivere.
Giuro, sarà per me
una nientificazione,
perché si è visti
agire solo nell’inagibile!)
La sabbia che resta
io l’avrò vista,
forse avrà lambito
la mia pelle scoperta,
la mia pelle mortale
ma assaggiata da secoli in polvere.
Poco sposta il vento
della sabbia che resta,
un granello, due, persistono,
si arrestano indifferenti,
li ascolto non sentendoli:
inorganici, perfetti.
La perfezione non nasce,
non cresce un fiore assoluto,
non acqua, non concime,
non terra da dissodare,
non una fase lunare
che indichi il momento.
Io non resto,
già mi schiaccia l’ora
e strappo pezzetti
inseguito da zampe gelose
che mi vogliono togliere
il grido, la lacrima,
il soffio che dice
“non resto che per cessare”.
Lascio in eredità
l’avermi disfatto
per un grano d’affetto
che lascio incompiuto,
ma la sabbia resta
e disprezza chi anela
ad un possesso misero,
alla pura generosità.
Let camouflage our hearts
at night!
Patches faded by the washing
of several years,
holes and patches
without love;
our soul witchcraft
bleaching the face,
a simple and sometimes
nitwit childish shout:
that’s what remains
of a shit heaven!
Cause night has
no curtains to fall,
neither shining candelabrums,
night is dark,
is a dense shadow
of ancient savour.
It’s the time of
a cynical laughter,
of a humble thought,
of a wrong placement,
of a compressed motion,
this is the night
that suppresses us
with made up outlines,
a gnawing breath,
a hemicranic pleasure.
Toward the death
a slim fire is sparkling
subtending nothing,
no blood,
no sperm,
only continence
stingy at all,
however a dream,
a moan,
a silence.
Let camouflage our hearts
at night:
they are addressed
to the submission
to him that never
betrayed us
because never
gave love!
Che siano i morti
ad inumarsi da soli
mi dissero altri cantori,
risciacquando antiche melodie;
ma me chi mi sotterra,
se sono refrattario alla presenza?
Ardetemi voi,
principi della sparizione,
crematemi con fuoco intenso,
date ai poeti il premio
per la loro cenere…
Bruciatemi!
Ma che il libro si chiuda
TEMO,
il lettore sono
che trema
alla vista
delle ultime pagine.
Non so più amare
lo spessore assottigliarsi,
il vuoto sullo scaffale in libreria
pronto al ricongiungimento
del figlio che torna
dal suo viaggio
nelle mani mie,
supplicanti.
Ma che il libro si chiuda
TEMO.
TREMO.
Dal luogo del martirio,
frequentato adesso,
torno con la cenere
delle mie effervescenze,
cucio un drappo
dai tessuti pronti,
ma latenti in un trasando
che mi proteggeva.
Ti vengo a trovare
mentre addenti il pane
del tuo sacrificio
e lo mastichi con fatalismo
ammirevole,
sei tu che mi vuoi
lì, in piedi,
a confidare nel tuo coraggio.
Se mi basta
ammirarti
mentre sbuchi
dalla porta
della tua corsia,
percorso il corridoio
che tu chiamasti
“gli 80 passi della speranza”,
e questa ammirazione
ha gli occhi lucidi
del bimbo
che ti ha desiderato tanto,
allora
la mia sofferenza
è una promessa
di gratitudine,
allora so
che la mattina
paga per generare
il fiore,
quel fiore
che non colsi mai
e mai giunsi
a curare.
I miei ganci
rosa
sono
ferro
d’amore
e
fede,
sono pianura
dove cresce
una mano
che
mi solleva
sono albe
che tu mi porti
e rinserro
per non manchi
tu…
Non mancare mai,
sei la mattina mentre mi
affaccio allo scostumato
fiume d’argento immoto,
sei il rigarsi della superficie,
sei un mio contrasto
con la mutazione,
sei il mio pudore…
Lividore,
se ne sta,
come una lucciola
in un campo di notte,
è l’amaro
che sfoggia gli abiti lussuosi
e va in parata:
quanto resiste
a quelle pupille tappate,
come si assicura
l’intero manto stradale!
Ma io provo a tenerlo dentro,
mi graffia,
mi strappa ogni supplica,
la rimpiazza
con il lerciume delle disfatte,
ma io lo tengo prigioniero qui,
e lui che vuole annientarmi
conosce l’incubo che
trasferisce a me.
Te ne uscirai un giorno,
ti sembrerà un’evasione,
la tua perenne prigione,
inutile quel saluto,
tu hai davanti
ciò che fuggi uscendo…
E te ne andrai.
Te ne andrai?
Vai via
a scomporre in altri luoghi
le tentate armonie,
non persistere in me,
in noi,
in queste case
che hanno ormai prosciugato
il liquido che ti fa galleggiare…
Vai via
in una tempesta assordante
o nel totale silenzio,
prendi le ultime lacrime
e donale spandile
perché si schiudano in mille giardini.
Ti perdono, sì ti perdono,
le mie ultime lacrime
che per te ho versato,
ti perdono i rovesci
che mi hai assestato…
E qualcuno sta già ridendo:
«Schöne Seele,
anima belloccia
ti rinfranchi?
L’incenso arde e speri?
Non denunciasti i poeti
ed altri
che infioccano il cadavere,
lo dipingono,
lo vestono a festa?
S’è ridotto a ben poco
Il tuo nobile singulto!»
Ma piano, piano
Io riprendo quota,
e tu mi lasci spazio:
ridi di me, ti prego,
la tua sfottente strenna
appunta al mio stendardo.
Cari giorni miei,
che l’avete preceduto,
il mio odierno,
organizzato per schiantarmi,
qui su questo indugio,
mi traversate ora
segando il corso avaro
della dolcezza clemente.
Vi voglio portare
a conoscere i camminamenti
che finiscono nello strazio ordinato,
a conoscere i referti
che notificano il danno brutale.
Venite ad assistere
mentre alle persone
si offre uno scampo,
come è sottratta una vita,
una vita che mi ha sorretto.
Non conoscete
che lo strappo cronico,
non affonda il varco vostro
nella materia che ci anima.
Eppure
io debbo fermarvi,
costringervi ad osservare
l’allarme,
poi lo sgomento
di un corpo innocente
che smette di sperare.
Cari giorni miei,
nel ventunesimo anniversario
di un annuncio funesto,
l’angelo della disgrazia
è tornato a piagarmi…