(Continua dalla Parte prima)
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, la Sindone è murata in una parete rocciosa del Santuario di Montevergine, sotto il coretto di notte. Ad un centinaio di chilometri di lì, nei pressi di Cassino, Umberto di Savoia ha inoltre provveduto a nascondere la sua collezione iconografica sul sacro Lino. Se riteneva veramente che quella zona fosse il migliore riparo che si potesse trovare, sbagliò previsione. Cassino divenne in breve il punto più caldo di tutto il fronte italiano.
Umberto vorrà essere presente su questo campo di battaglia e partecipare in prima persona ai combattimenti. Per il futuro re questi posti rappresentavano qualcosa di più che semplici punti sulle mappe militari, qui aveva nascosto i suoi tesori più importanti. Gli scontri, che si protrassero per mesi, furono durissimi e le perdite impressionanti. Il 6 dicembre del 1943, dovendosi compiere un volo di ricognizione per individuare le postazioni dei tedeschi che sembravano inespugnabili, egli si offrì di sorvolare la zona. Senza curarsi della contraerea nemica, rimase in volo per venti minuti. Nelle varie operazioni di guerra il principe diede prova di un eroismo tale che stupirà le autorità militari; qualcuno giungerà perfino a sostenere che egli volesse esporsi volontariamente alla morte per sottrarsi al drammatico destino al quale andava incontro la monarchia. In realtà egli mostrò di essere animato da una fede che lo rendeva capace di guardare anche oltre la morte. L’azione gli valse il conferimento di una medaglia d’argento.
Il campo di battaglia di Cassino, comunque, sarebbe stato ancora teatro di immani atrocità. Il numero dei morti, in quel luogo, fu così alto che i corpi ostruivano lo stesso svolgersi delle manovre militari; tedeschi ed alleati si videro costretti persino a concordare una pausa nelle operazioni belliche per consentire lo sgombero dei cadaveri. Altrettanto impressionante fu l’esito dei bombardamenti: in questo posto non rimase pietra su pietra e il monastero di Montecassino fu ridotto in polvere. La collezione iconografica andò così interamente dispersa. Nemmeno la stessa sacra Sindone, che si trovava a Montevergine, poteva dirsi al sicuro. Il territorio circostante fu sottoposto, da parte degli alleati, a pesantissimi bombardamenti; particolarmente violenti quelli del 20 agosto del ’43. Una serie di madornali errori del comando alleato, inoltre, determinò al fronte una situazione di stallo che fece temere una controffensiva tedesca con l’aggiunta di altri lutti e danni.
Nel giugno del ‘44 Umberto di Savoia era nominato Luogotenente del Regno, una carica che gli conferiva, di fatto, i poteri del re. Poteri che esercitò, però, in maniera singolare: destinò il 90% dell’appannaggio a lui riservato in opere di beneficenza e adibì il Quirinale, residenza ufficiale del sovrano, a centro d’accoglienza per quanti erano privi di mezzi a causa della guerra. Il palazzo si popolò di orfani, poveri, senzatetto, malati; ma soprattutto di bambini mutilati di guerra. Certamente fu animato in questo dalla fedeltà alla regola della Confraternita del Santo Sudario, con le sue attività al fianco dei bisognosi.
La monarchia, che sembrava essere stata definitivamente liquidata, con la fuga verso Pescara orchestrata da Badoglio, riacquistò credibilità. Gli americani, che pure erano prevenuti sul ruolo della monarchia, iniziarono ad apprezzare Umberto di Savoia. Winston Churchill vedeva in lui il più affidabile e leale alleato della Corona inglese. Anche Pio XII, tutt’altro che neutrale rispetto alla questione istituzionale, cominciò a guardare con favore all’idea che egli diventasse il punto di riferimento dei cattolici impegnati in politica. La popolarità di Umberto crebbe enormemente e in maniera imprevista.
La storiografia, inevitabilmente, applica degli schemi precostituiti con i quali si tenta di rendere la storia comprensibile. Perciò la monarchia fu collocata in opposizione al movimento antifascista uscito dalla guerra. In realtà le cose non stavano precisamente così. Nonostante vi fossero oggettive contrapposizioni, è nota la costruttiva collaborazione che animò il rapporto tra De Gasperi e Umberto II. Lo stesso Togliatti volle manifestare la propria disponibilità nei confronti della casa reale con la storica svolta di Salerno; un fatto che, troppo sbrigativamente, si attribuì a opportunismo e grossolana demagogia. Ma il maggiore attestato di stima nei confronti del re venne, imprevedibilmente, proprio dal più “repubblicano” dei politici: Ferruccio Parri, esponente del partito d’Azione, disse: «In coscienza devo riconoscere che sarebbe il migliore dei re».
Non è questa la sede per soffermarsi sulla drammaticità di quelle giornate cruciali, né sarebbe saggio scoperchiare quel terribile vaso di Pandora che fu lo spoglio delle schede del referendum. Il parto della Repubblica “assistito e pilotato” – per usare le stesse parole di Togliatti – si concluse secondo le previsioni. Umberto fu mandato in esilio, in fretta e senza tanti complimenti; qualcuno disse che era stato penalizzato perché era “troppo cattolico per aderire alla massoneria”, una frase enigmatica che però potrebbe spiegare tante cose.
Il re trovò rifugio in Portogallo sistemandosi nei pressi della cittadina di Cascais in una località che veniva indicata col nome, poco rassicurante, di Bocca dell’Inferno. Non ebbe la possibilità, prima della partenza, di recarsi a Montevergine per riprendere in consegna la sacra Sindone; il 10 giugno 1946, nel momento più drammatico del passaggio alla Repubblica, scriveva al cardinale Fossati delegando a lui tutto ciò che era necessario per far tornare il Telo a Torino.
La vita dell’esilio fu per Umberto certamente dura, ma la sua solitudine veniva di tanto in tanto interrotta dalle visite di molti connazionali e di amici. Fino a quando lo Stato Italiano non glielo impedì, volentieri andava a salutare gli emigrati italiani diretti in America e che facevano scalo a Lisbona; secondo un’interpretazione rigorosa delle leggi, forse eccessivamente rigorosa, le navi sono da ritenersi territorio nazionale e a lui, in ragione della sua condizione di esiliato, non era consentito mettervi piede. Un giorno del 1955 andò a trovarlo anche Leonard Cheshire, un colonnello della Royal Air Force che, durante la seconda guerra mondiale, aveva partecipato al bombardamento atomico su Nagasaki. Accompagnava una ragazza affetta da una grave malattia per la quale chiedeva il consenso del re affinché le fosse mostrata la sacra Sindone; era convinto che questo avrebbe potuto guarirla. Riprendendo un’antichissima tradizione, il sacro Lino fu adagiato sulla parte malata della ragazza che, pur non guarendo completamente, miracolosamente recuperò le sue funzioni vitali: poté condurre una vita normale, sposarsi e avere anche un figlio.
(Seconda parte. Continua)
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Revisione di un articolo pubblicato sulla Rivista del Collegamento pro Sindone