La scacchiera di Marcelo Damiani. Marcelo Damiani, Il mestiere di sopravvivere, traduzione e cura di Marcella Solinas, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2014, pp. 184, euro 12,00
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di Primo De Vecchis
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In un’isola dell’America Latina, per certi versi simile all’Argentina dei nostri tempi, sorge una particolare università chiamata Centro Accademico SCAcchistico Transnazionale Avanzato (C.A.SCA.TA), che prevede una innovativa Laurea in Scacchi, dove si insegnano materie tecniche (“Aperture”, “Finali”) e altre più teoriche (“Estetica”, “Filosofia della scacchiera”). Non si tratta dell’inizio di un racconto di David Foster Wallace, ma del primo capitolo di un romanzo postmoderno (ma per nulla “superficiale”) dell’argentino Marcelo Damiani, classe 1969, che prende il titolo de Il mestiere di sopravvivere.
Scovando e leggendo questo e altri autori della letteratura latinoamericana contemporanea si fanno molte scoperte interessanti, che meritano di essere divulgate o almeno tradotte, come ha fatto Marcella Solinas con Damiani, autore (fittizio) tra l’altro della “variante Damiani” nel gioco degli scacchi, il che lo imparenterebbe per un attimo al formidabile Nabokov, entomologo, scrittore, ma anche noto scacchista (come Kubrick). In fin dei conti certi romanzi sono come una partita a scacchi e i movimenti prestabiliti delle diverse pedine possono aprire inattesi squarci di ars combinatoria. Una pedina fondamentale della scacchiera letteraria di Damiani è León Tolver, un professore di filosofia nella suddetta università, che compie anche misteriosi viaggi e missioni in Nuova Zelanda per conto della sorella, la quale a questo punto potrebbe essere «una spia straniera o una delinquente internazionale» (p. 39). La pedina León sposa la bella Claudia, una studentessa del suo corso, e nel frattempo cerca di portare avanti il suo progetto di scrittura: un saggio che si occupi della relazione tra la felicità e la morte. L’unica felicità possibile, alla luce dell’inevitabile presenza della morte, sembra essere il recupero della eudaimonia greca, l’arte di essere felici degli antichi, che vivevano in armonia con gli Dei e quindi con il cosmo ovvero la natura. Un pensiero che il riflessivo León sembra condividere con il nostro Leopardi, grande filologo classico e quindi pensatore asistematico. Infatti una presenza costante in queste pagine risulta essere quella del filologo Nietzsche, che si occupò proprio di questi temi portandoli alle estreme conseguenze: si tratta però di un Nietzsche a tratti depotenziato, in parte postmoderno, e quindi filtrato dalle lezioni di Derrida: alcuni capitoli prendono il titolo di Al di là del bene e del male ed Eterno ritorno. Non mancano le allusioni ad un altro grande pensatore (pessimista) aforistico dei nostri tempi, Emil Cioran: L’inconveniente di essere nato. Invece il capitolo Vivere è un plagio, uno dei migliori a nostro avviso, sembra essere il cuore ineffabile di questo romanzo. Qui lo scrittore di successo David Morey, altra pedina rilevante, narra la sua paradossale vicenda. Tre settimane prima della festa indetta in suo onore per la presentazione del suo ultimo romanzo si trovava ancora ricoverato in una clinica per alcolisti, poiché era stato trovato nudo e ubriaco in un bosco dell’isola. In clinica David riceve la visita di Claudia, sua amante, poi del suo editore cinico e baro Oscar Washington e della moglie Veronica, che a quanto pare porta avanti una relazione extraconiugale con l’editore. La moglie e Oscar, come il gatto e la volpe, invitano David a firmare il contratto del suo ultimo romanzo, Vivere è un plagio, che però lui non ricorda affatto di aver scritto. È vero che soffre di forti amnesie a causa del suo alcolismo, ma il dubbio che si tratti di un piano per gabbarlo, per usare il suo nome come autore fittizio del romanzo di un ghostwriter, comincia ad assillarlo come un tarlo. Il romanzo infatti è sospetto, una sorta di bestseller di stagione costruito a tavolino, che lui non avrebbe mai potuto scrivere. L’aspetto forse più interessante è che c’è un recensore cinematografico, Reynaldo Gómez, che mostra di avere una cognizione del romanzo maggiore di quella dell’autore. È da notare che anche il recensore, assieme a Veronica, Claudia, Oscar e altri personaggi aveva già partecipato alla festa alla quale accennammo. Ciò non è così irrilevante da far notare qui poiché il libro-scacchiera di Damiani, seguendo un procedimento tecnico tipicamente cinematografico, ma che ha ascendenze letterarie (si pensi al magnifico racconto In un boschetto dello scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa, morto suicida nel 1927, e antologizzato dalla coppia Borges-Casares nel volume Los mejores cuentos policiales. Primera serie del 1943), adopera alcune scene chiave come perno centrale attorno al quale far muovere i personaggi, ma anche i loro diversi piani temporali e le loro “versioni” dell’evento comune. Anche i singoli capitoli incarnano spesso le versioni dei singoli personaggi, narrate in prima o terza persona. Un’altra pedina brillante del gioco di Damiani è proprio il recensore Reynaldo Gómez: Critico perché sono un critico.
Gómez è il classico personaggio di derivazione kafkiana (ma anche gogoliana e quindi onettiana) che ritroviamo spesso in molta letteratura argentina, è l’impiegato, non privo di talento, che però subisce spesso le angherie del suo datore di lavoro, talora iniquo e ignorante. In tal caso il sadico fustigatore è un nano ciccione chiamato lo Scaricatore, che infatti a un certo punto esclama: «perché così ti posso calpestare come un insetto tutte le volte che voglio» (p. 113). Che Reynaldo sia un animo affine a quello di Kafka è confermato dal fatto che uno dei suoi film preferiti è Brazil di Terry Gilliam, che oltre a essere tratto da 1984 di Orwell deve moltissimo a quell’incubo cristallino che prende il nome de Il processo (ben rappresentato sullo schermo da Orson Welles). Vale la pena di citare il passo narrato in prima persona da Reynaldo (che forse condivide in parte le istanze dell’autore): «sono arrivato alla conclusione che i meriti del film derivassero almeno in parte dal contributo di Tom Stoppard alla sceneggiatura. Il drammaturgo inglese (nonché regista di uno dei migliori adattamenti visti in vita mia, Rosencrantz e Guildenstern sono morti, basato su una sua opera teatrale) è uno specialista nel reinterpretare l’universo shakespeariano in chiave postmoderna» (p. 121). Il riferimento va all’Amleto. L’Argentina stessa ha assunto nell’arco di alcuni anni «le fattezze di uno stato totalitario e, pertanto, repressore» (p. 121). Ma una frase altamente significativa ci pare la seguente: «Il tema del film allora non è più il tentativo di realizzare i sogni, ma la costruzione claustrofobica di un mondo immaginario per sfuggire al tormento del mondo reale» (p. 122). Ecco, se vogliamo parlare di “postmodernismo” nel caso di Damiani (come per molti altri autori del Cono Sur) dobbiamo epurare il concetto (tra l’altro molto malleabile e contraddittorio) da sfumature come “leggerezza”, “assenza di peso”, “citazionismo superficiale” e via dicendo.
Forse il vero postmodernismo (termine quanto mai abusato) consiste in questo: moltiplicare i punti di vista e i piani di realtà in modo quantistico per (di)mostrare l’illusorietà dell’ingenuo realismo letterario di ascendenza positivista (ancora in auge). Ma tale artificio intende alludere anche all’illusorietà della nostra vita tangibile, del tempo rovinoso che ci intrappola nella sua rete, delle nostre convinzioni ideologiche, che spesso sono la sterile ripetizione di qualche luogo comune.
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